Attenzione: l’articolo contiene spoiler sulla sesta stagione di Better Call Saul (ma se siete in pari con la visione, qui trovate anche la recensione del settimo episodio della sesta stagione di Better Call Saul).
Prima ancora che il sole si aggrappasse pigro all’orizzonte, per segnare il sorgere di un nuovo giorno, lo squittìo vibrante della sveglia ruppe il silenzio nella camera da letto di Gus Fring.
Lo squillo metallico rimbombò tra le pareti solo per qualche secondo, prima che la mano ferma di Fring ne stroncasse la voce, coprendosi nuovamente di silenzio. Allo stesso modo, l’uomo mise a tacere quella voce così umana, che reclamava qualche minuto in più avvolto nella morbidezza delle coperte e nell’anestesia inebriante del sonno. Nella vita di Gus Fring non c’era spazio per le debolezze, nei che per lui erano come una distrazione fatale e destabilizzante. Tutto doveva avere il suo posto, tutto doveva essere esattamente come e dove Fring desiderava che fosse. Anche se il confine tra la volontà e la schiavitù dalla sua stessa mente era labile e invalicabile.
Senza guardarsi indietro, in quella penombra che lo faceva sentire così a suo agio, si diresse verso il bagno. Come ogni mattina afferrò lo spazzolino che sostava appollaiato nel bicchiere limpido che lo ospitava. Solo dopo aver spremuto con minuziosa cautela un ciuffo di dentifricio sulle setole, ebbe il coraggio di alzare lo sguardo verso la figura impassibile che sostava di fronte a lui.
Gus Fring, come molti personaggi di Better Call Saul, aveva sempre avuto una relazione strana con il suo riflesso.
Ne era affascinato e allo stesso tempo intimorito, evitava gli specchi il più possibile, ma quando si ritrovava davanti all’immagine di se stesso non poteva fare a meno di rimanere ipnotizzato da quello sguardo. Quasi in segno di sfida, teneva gli occhi puntati sui suoi stessi occhi, li guardava fin quando non gli sembrava quasi di sprofondare nello specchio. Trovarsi di fronte alla figura bidimensionale dell’involucro che indossava nella sua quotidiana mascherata era deviante, gli sembrava quasi di poter sbirciare nella sua anima, e quando questo accadeva anche lui non poteva fare a meno di provare una scintilla di paura. Come Dorian Gray quando per la prima volta scopriva i segni della sua decadenza tra le pennellate del suo ritratto.
Uscire da quel bagno fu una liberazione, come coprire nuovamente la tela dei peccati nella soffitta di Dorian. Aprire le ante dell’armadio era altrettanto rassicurante, infatti si concesse un secondo per sospirare di fronte alle camicie perfettamente stirate e ordinate per colore. In quella sequenza cromatica senza grinze, trovava la serenità per affrontare il passo successivo, per confrontarsi con quel mondo così disordinato in cui bisognava lottare con le unghie e con i denti, affinché ogni elemento trovasse il posto che la sua mente gli aveva assegnato.
Sarebbe stato bello poter ordinare gli esseri umani con la stessa facilità con cui ordinava le camicie in ordine cromatico, per poi rinchiuderle all’occorrenza dietro le ante di quell’armadio senza un filo di polvere.
Se per la maggior parte delle persone il silenzio era un peso troppo difficile da sopportare, per il villain di Better Call Saul era un modo per mettere in ordine i suoi pensieri.
L’ordine lo aiutava a respingere la paura, ad analizzare ogni sua mossa come se la sua vita fosse un’eterna partita a scacchi. Un piccolo errore e lo scacco matto era dietro l’angolo, come Lalo Salamanca che si aggirava oscuro tra le trame della sua vita: un ragno di cui ci si vuole liberare ma che un secondo prima della cattura scappa in qualche angolo buio della nostra stanza. Sappiamo che è lì da qualche parte, ma non sappiamo dove. Sappiamo che al momento opportuno tornerà alla luce, ma non sappiamo quando.
Quando ebbe finito di allacciarsi le scarpe fu il turno della pistola, da nascondere sotto l’orlo perfettamente piegato del pantalone. Ogni mattina e ogni sera quella pistola stretta alla caviglia gli ricordava che sotto gli abiti della normalità c’era un mostro. Era fiero di quel mostro, era l’unica cosa che lo teneva in vita e che gli garantiva il successo sia nella sua falsa vita da imprenditore, sia nella sua vera vita nell’oscurità.
La parte più difficile era come sempre aprire la porta di quella stanza, che divideva la sua intimità con il mondo esterno. Come sempre attraversò i corridoi che nascondevano una finta famiglia americana, tornò nel quartier generale affollato di voci, telecamere e tensione. Ogni giorno gli sembrava di vivere al fianco di una bomba pronta ad esplodere, e la cosa peggiore era che questa volta non sapeva come disinnescarla, questa volta aveva paura.
Continuavano a dirgli che Lalo era morto, che il pericolo era lontano. Ma Gus sapeva che non era così, sentiva il fiato pesante del Salamanca dietro la nuca. Come il ragno sarebbe spuntato al momento più propizio e lui non poteva permettersi di rimanere un passo indietro.
Ma, allo stesso tempo, non poteva permettersi di nascondersi per sempre. Quando si vive in bilico tra due vite bisogna mantenere l’equilibrio e il sorriso posticcio per tenere in piedi le apparenze.
Così si ritrovò di fronte a un’altra porta, quella che divideva il Fring oscuro di Better Call Saul dal rassicurante e cordiale imprenditore della catena di fast food.
Indossò uno dei sorrisi che teneva impilati nell’armadio della sua mente. Anche questi erano posizionati a seconda delle diverse sfumature di colore, e proprio come le camicie sulle loro grucce anche loro non avevano la benchè minima grinza.
Nel tragitto era all’erta come i leoni prima della caccia, teneva d’occhio ogni specchietto, ogni cespuglio, ogni sospetto veicolo che si avvicinava troppo o che gli stava alle costole per un lasso di tempo prolungato. Lo sguardo era vitreo sull’asfalto e cercava di spegnere quel pulsare doloroso che bussava tra le sue costole. Avrebbe voluto vomitare via quella sensazione, quella vulnerabilità gli faceva schifo, lo rendeva insofferente.
E tra questi pensieri ansimanti arrivò nel parcheggio di Los Pollos Hermanos, la sua seconda casa. Anch’essa fittizia, ma d’altronde cosa c’era di vero nella sua vita?!
A quell’ora del mattino non c’era ancora nessun cliente, gli impegati che erano appollaiati in un momento di relax saltarono sull’attenti quando videro il loro titolare fare il suo ingresso.
Buongiorno Signor Fring!
Affermarono con reverenza, sperando in cuor loro che tutte le friggitrici fossero all’opera e perfettamente pulite, così come le cappe e gli utensili vari che erano in giro per la cucina. Un solo mestolo fuori posto sarebbe stato un problema.
Gus passò in rassegna con lo sguardo il bancone e la cucina prima di rinchiudersi nel suo ufficio. Quella mattina non riusciva a pensare con lucidità, aveva bisogno di schiarirsi la mente, così iniziò a spolverare la scrivania e tutti gli oggetti appoggiati su di essa. Temperò le matite, le riordinò affinchè fossero perfettamente simmetriche e in perfetto ordine. Finchè la sua routine non fu interrotta dall’ingresso di Mike Ehrmantraut, il quale chiudendo la porta fece rotolare lievemente una delle matite. Evento che distrasse Fring per un secondo, dovendo restaurare la precedente situazione di simmetria prima di poter prestare ascolto al suo impiegato.
La sua giornata parallela ebbe così inizio. I suoi due impieghi si sciorinavano divisi da una porta, come lo Specchio di Alice. Con la sola differenza che in nessuna di quelle vite posticce esistevano meraviglie.