Non si tratta della malattia.
Walter White, un uomo a lungo sopravvissuto alle ambizioni della vita, nella sua malattia ci è entrato come un occhio curioso nel fedele microscopio. Con l’insolenza di una sostanza idrofila in acqua.
Qui Walter ha cominciato a somigliare alla sua chimica, bruciando la distanza che il racconto stesso crea tra la storia e il narratore. Congedandosi da insegnante e promuovendosi protagonista.
È per questo che Walter non può morire da malato. Lo farà, semmai, da tormentato.
Chuck non è diverso. Vorrebbe esserlo quando si veste di diafano per schivare il male che è solo nelle pareti della sua mente. Quelle pareti nervose che diventano una casa, sede nella quale lasciare a sedimentare la sua ossessione.
Chuck non può venir meno a un diktat imposto dalla sua patologia, e la patologia stessa non può venir meno al diktat imposto da Chuck in questa drammatica spirale ricorsiva: come se egli stesso chiedesse al suo male di non lasciarlo solo e di tenergli compagnia nell’immacolato, poi d’un tratto diroccato, impero della sua mente.
Piuttosto che la caducità del corpo, o la mortalità dell’uomo, le storie di Walter (Breaking Bad) e Chuck (Better Call Saul) raccontano l’inottemperanza della mente al cospetto del concetto di morte.
Questa astrazione viene mostrata nitidamente nelle situazioni che costruiscono le scene delle due morti: il primo, con un piano elaborato, sconfiggerà il cancro con la morte purché si possa dichiarare vincitore (in quella che è la più lampante rappresentazione dell’egodistonia); il secondo, calciando la sua scrivania, sublimerà la presa di distanza dal male che si è autoinflitto, come a “mascherare” a se stesso attraverso la finta fatalità un suicidio che potrebbe ammettere il suo disturbo psicosomatico.
È qui, nella convinzione, che la malattia in sé scompare per lasciare posto all’ossessione.
La compulsione nata dal malessere.
L’ossessione che prende vita e viene “scoperta”, setacciata e materializzata in qualcosa di fastidiosamente incontrollabile ma anche estremamente piccolo (tanto basta per risultare all’apparenza innocua), al fine di estirparla: una minuscola mosca in Breaking Bad e un’impercettibile fonte di energia in Better Call Saul.
Sì, impercettibile. Perché se è vero che l’energia ha sempre spaventato la deliziosa mente di cristallo di Chuck solo in quelle situazioni di “evidente pericolo” nella sua dispercezione, è altrettanto vero che nell’ultimo episodio della terza stagione di Better Call Saul l’ossessione deve assumere l’ultimo nefasto carattere schizoide (ne consegue l’alienazione più profonda e la successiva segregazione in casa di Chuck), divenendo anche “invisibile”. Inoperabile.
“Lantern” (3×10 di Better Call Saul) e “Fly” (3×10 di Breaking Bad) costituiscono un parallelo voluto, cercato e perfettamente riuscito da parte di Vince Gilligan, che non perde l’occasione di giocare con la numerologia tanto quanto fa col simbolismo estetico.
In particolare i 9 minuti in cui Chuck è intento a liberarsi, invano, dell’impellente ronzio di Tanos che buca i suoi pensieri. In quei minuti è racchiusa l’intera essenza di “Fly” (e, forse, di Breaking Bad stessa), nella misura in cui riescono a plasmare lo spazio e a modellare la sintesi di un intero personaggio.
In ambo gli scenari, il protagonista si ritrova all’interno di una struttura che rappresenta il suo intero percorso spirituale/formativo, quali il laboratorio per Walter e casa propria per Chuck.
Tra quelle mura che sono il simbolo dell’ipercompensazione di un affetto materno a lui mancato, Chuck si interfaccerà con una piccola, insignificante “contaminazione”. Maniacalmente tenterà di eliminarla solo per scoprire che non potrà mai essere debellata.
Proprio come la mosca di Walt, che riapparirà (forse solo nella sua mente) negli ultimissimi secondi di puntata, in controluce, sull’allarme antincendio; il volto di Walter è a metà tra lo sgomento e la rassegnazione, per quella presa di coscienza che tanto rassomiglia alla sconfitta di Chuck.
Lo spasmo della mano di Chuck diventa frequente quanto la necessità di Walter di tirarsi su gli occhiali nervosamente quando le cose non vanno come vorrebbe, e chiede aiuto al telefono (ai tecnici, perché possano intervenire in casa). Ma a differenza di Walter, che nella sua richiesta di aiuto troverà un ancor fedele Jesse, Chuck ha già terminato i suoi crediti con l’addio definitivo a suo fratello, solo poco tempo prima. Lui non ha più nessuno, e dovrà fare da sé.
Rimuoverà pian piano tutto ciò che lo collega al mondo, sperando che questo svanisca attorno a lui. Ma il contatore continua a girare.
Il mondo continua a girare, così come quel ronzio circolare che persiste nella testa. La mente di Chuck è la mente di Walter, ed entrambi pagano l’ossessione come fosse la comorbilità dell’ambizione.
Il corpo di Chuck sembra degradarsi con la sua integrità mentale, il suo portamento muta nello scoccare di un secondo, in un giro di contatore la sua camminata è ora spaesata, i suoi gesti convulsi e la sua postura curva.
Rimuovere ora non basta più, e la distruzione è una conseguenza quasi naturale, degradante e primitiva.
Mentre Better Call Saul risolve il suo prezioso omaggio a Breaking Bad, Chuck rinnega per sempre il mondo.
Rinnega la luce del mattino, e quel riflesso alabastrino che emana il suo mantello protettivo.
Chuck sa che il fumo soffocante è un oltraggio personale, e gioca a nascondino tra fiocchi di cenere che voleranno via come un’idea divenuta nera quanto l’ossessione.
Non si tratta della malattia quando ormai, nella testa, un volt sa ronzare come una Mosca.
Quella è “solo” ossessione.