E se Orfeo, dopo aver affrontato l’inferno per riportare in vita la sua Euridice, si rendesse conto di non volerla più?
Se realizzasse che quella riemersa dalle tenebre non è la sua amata ma una pallida imitazione, senza anima, dell’amore per il quale ha sfidato la morte, la riporterebbe indietro? La prima puntata della seconda stagione di Black Mirror, Torna da me, pone l’interrogativo più straziante a cui si possa pensare: cosa siamo disposti a fare per riavere chi abbiamo perso per sempre?
Un interrogativo che porta alla mente il mito greco, solo che nel caso di Black Mirror nei panni di Orfeo c’è una donna, Martha, e in quelli di Euridice il suo fidanzato Ash, morto improvvisamente nel fiore degli anni proprio come la sfortunata ninfa.
Black Mirror attualizza una delle storie d’amore più celebri e strazianti: il poeta che attraversa gli Inferi per riportare in vita la sua amata e che la perde proprio sul più bello, non riuscendo a resistere all’impulso di girarsi e guardarla. Ma anche se fosse riuscito a dominarsi e a varcare il confine dell’oltretomba con lei, probabilmente, non avrebbe comunque vissuto l’idillio che sperava.
Perché la morte è l’unico confine invalicabile, l’unico ostacolo che nemmeno l’amore più forte può superare. E se ne rende conto Martha quando cerca di riportare in vita il suo Ash, compiendo non un viaggio all’inferno ma una non meno infernale discesa negli abissi della tecnologia.
Dopo la morte di Ash, Martha rimane sola e triste in una casa piena di ricordi non suoi: nella prima scena della puntata, infatti, è proprio lui a spiegarle il dramma che ha coinvolto la sua famiglia quando lui era bambino. Sua madre, per superare la perdita di un figlio, chiude tutto ciò che lo riguarda in soffitta, lontano dagli occhi: un dettaglio che nell’epilogo della puntata si rivelerà amaramente ironico.
Martha deve imparare a vivere di nuovo, dopo aver perso Ash: non è solo l’istinto di sopravvivenza a imporglielo, ma la nuova vita che cresce dentro di lei. Proprio questa novità, terribilmente dolceamara, la porta a decidere di dare una possibilità al “software di resurrezione digitale” che la sua amica le aveva consigliato. A chi altro comunicare la notizia della sua gravidanza, se non a lui? Anche se lui non c’è, anche se non ha nemmeno una bocca con cui rispondere, anche se è solo un insieme di codici, frammenti di una vita digitale che Ash ha seminato online senza pensare che, in futuro, sarebbero serviti a ricomporre una grottesca imitazione di lui.
All’inizio per Martha è realmente terapeutico parlare con la versione cloud di Ash. Chiunque ha perso una persona cara conosce la sensazione di amaro sollievo che dà l’abitudine di continuare a parlarci e, persino, di rispondersi come avrebbe fatto lei: in Black Mirror questo stadio di elaborazione del lutto è portato a un livello successivo.
Ma non è abbastanza: arrivano i primi segnali di una dipendenza tecnologica, che creano in Martha la paura di poter perdere di nuovo Ash. Il terrore che prova quando fa cadere il telefono, la sensazione di impotenza, l’impulso irrefrenabile di riportare di nuovo online la sua voce, il sollievo di averlo di nuovo con lei: il dolore non viene elaborato, rimane lì e si prende sempre più spazio nella sua vita, fino a escludere tutto il resto.
Black Mirror (640×360)
Arriva il momento in cui anche la voce non è più abbastanza: è interessante notare, però, come in Black Mirror sia la stessa versione cloud di Ash a proporre a Martha di effettuare un upgrade, per così dire. Come se la coscienza digitale del defunto premesse per diventare qualcosa di più di una voce eterea, immateriale e distante: come se Ash volesse a tutti i costi risorgere.
La scelta di Black Mirror di dare al surrogato del defunto la volontà di tornare in vita, e non alla persona in lutto, la dice lunga sulla lungimiranza di questa serie su tematiche come l’ingerenza della tecnologia, i pericoli dell’assuefazione digitale e, argomento di strettissima attualità, il dilagare di fenomeni come l’intelligenza artificiale. Se Martha fosse una persona reale, probabilmente al giorno d’oggi utilizzerebbe ChatGPT o ChatBOT per parlare con Ash, ma la sostanza non cambia: il legame che si creerebbe tra macchina ed essere umano diventerebbe così forte da illudere di poter battere anche la morte.
All’inizio, la differenza tra una voce e un corpo materiale si fa sentire: ma Martha si illude che possa bastare a colmare il vuoto. Anzi, il sesso sembra quasi migliore di quello con Ash reale e il suo simulacro non la ignora stando col naso sul telefono, come faceva da vivo.
“Quel coso ti sta portando via da me”, diceva Martha ad Ash nella scena iniziale, dopo averlo rimproverato perché perdeva troppo tempo sullo smartphone. L’ironia è che proprio grazie alla tecnologia Ash riuscirà a tornare in vita, anche se solo in una versione abbozzata. Eppure Martha si rende subito conto che sono proprio quelle piccole cose, quei frammenti di debolezza e inadeguatezza, a mancarle da morire. Perché sono i dettagli a comporre il quadro completo della personalità umana.
Non bastano stralci di conversazioni, briciole di chat e una manciata di tweet per ricostruire il mosaico di una vita, di una storia personale e unica. E più il simulacro di Ash cerca di sforzarsi di imitare l’originale, più cerca di compiacere Martha, più lei si arrabbia perché è proprio negli sbagli, nelle arrabbiature e nell’incapacità di soddisfare le sue aspettative che lei vorrebbe ritrovare un barlume della vita del suo ragazzo.
Black Mirror (640×360)
Ma non c’è vita, in quegli occhi animati solo da sostanze chimiche e dati salvati sul cloud. Il nuovo Ash non prova sentimenti, non la ama così come non mangia, non respira e non dorme: è una macchina troppo perfetta per essere un vero essere umano, è una versione troppo posticcia del suo Ash per essere anche solo un barlume di lui.
Il nuovo Ash non ha memoria del suo passato: quello che conosce si limita a ciò che il vero Ash aveva condiviso online. Il che fa riflettere sulle enormi potenzialità della tecnologia: se l’intelligenza artificiale riuscisse ad arrivare anche solo al livello mostratoci da Black Mirror, sarebbe a dir poco sbalorditivo. Ma resterebbe un interrogativo inquietante: vorremmo realmente dare i nostri ricordi in pasto a un software per farci risorgere?
Martha si ritrova a volersi disfare di ciò che aveva desiderato di più al mondo: la possibilità di riavere di nuovo accanto il suo Ash, di riabbracciarlo, di fare l’amore con lui e di sentirlo dire che il Grand Canyon è “solo un buco”. Nemmeno di fronte alla morte il simulacro di Ash ha una reazione umana: i suoi tentativi di rispecchiare ciò che un normale essere umano farebbe di fronte all’ordine di gettarsi da una scogliera fanno infuriare Martha e creano un effetto straniante e grottesco nello spettatore.
Come può morire qualcosa che non è realmente in vita? Come distruggere quella Creatura di Frankestein mite, accondiscendente e così orribilmente sbagliata?
L’oblio digitale, in Black Mirror così come nella vita reale, è impossibile. Il simulacro di Ash non può morire e i dati che contiene non possono scomparire, una volta riesumati dal cloud. Non rimane che nasconderlo, confinarlo in soffitta, insieme ai ricordi di un’altra persona morta troppo presto, il fratello di Ash. Come un telefono chiuso in un cassetto o un’app disinstallata: sono lontani e ormai inoffensivi, ma continuano a esistere, a essere “vivi”, nel modo in cui sanno esserlo i dispositivi tecnologici.
Black Mirror (640×320)
Nel 1904 Rainer Maria Rilke rilegge il mito greco in Orfeo, Euridice, Ermes. Rilke descrive Euridice come un’anima che avanza “incerta, mite e senza impazienza” verso la luce, perché la morte l’ha liberata dal ricordo del marito. Quando Ermes, dio psicopompo e accompagnatore delle anime, le dirà che Orfeo si è voltato, lei risponderà smarrita “Chi?”, non potendo più riconoscere il suo grande amore, per poi svanire per sempre. Marina Ivanovna Cvetaeva, invece, nei suoi versi dà voce proprio a Euridice che rimprovera il marito di averla strappata, con la sua arroganza, al mondo a cui appartiene ora, quello delle ombre: “Dimentica e abbandonami!”.
Questa puntata di Black Mirror attualizza il mito di Orfeo ed Euridice alla luce delle riletture novecentesche, concentrandosi sul doppio ruolo della tecnologia come strumento per risorgere ma allo stesso tempo anche oltretomba in cui far sprofondare i risorti. Il simulacro di Ash non ha lo spessore per rinfacciare a Martha l’arroganza di volersi ergere a semidio, come l’Euridice di Cvetaeva, perché non è un’anima ma solo una manciata di dati, stralci di passato selezionati e salvati in cloud. Ma questo episodio ci mostra, con la crudeltà e la delicatezza di cui la Black Mirror dei primi tempi era capace, di che cosa è capace l’essere umano quando soffre, a quali vette di tracotanza può spingere il dolore.
Ash, nella sua incompiutezza e inconsistenza, è più simile all’Euridice di Rilke, evanescente e dimentica della sua vita passata, al punto da non soffrire nemmeno per il nuovo, definitivo distacco. L’intuizione televisiva di Charlie Brooker è mostrare uno spettro che assume una forma materiale, che si sforza di essere umano e compiacere la sua “amministratrice”, ma finisce condannato in un limbo eterno, la soffitta metaforica dove stipare i ricordi che fanno troppo male, le fotografie che non si vuole vedere.
Un limbo in cui ricacciare i fantasmi che neanche possono, nell’universo distopico di Black Mirror, avere la consolazione di svanire in un soffio.
Inconsistenti ed eterni, schermi bui da attivare o spegnere con un gesto, stralci di un’anima senza più ricordi da confinare in un oltretomba digitale. Fino alla prossima riattivazione.
Giulia Vanda Zennaro
La puntata 2×01 di Black Mirror sarà raccontata, approfondita e analizzata anche giovedì sera 11 Maggio alle 21.00 sul nostro canale Twitch: ci trovate sotto il nome hallofseries_com. Vi aspettiamo!