Questo Black Museum, episodio conclusivo di una discussa quarta stagione di Black Mirror è un carosello. Una passerella di ricordi e temi che ci hanno accompagnato in questi anni. Il Black Museum non è altro che un teatro in cui tutto è compiuto, in cui non è rimasto altro che una traccia di quello che è stato. Come in un grandioso puzzle tutto si ricompone in un quadro unitario. Ogni riferimento, ogni oggetto, ogni stand del museo ci restituiscono la profondità di un j’accuse che ha dominato ora uno ora un altro episodio.
In Metalhead veniamo catapultati in un futuro più distante ma simbolicamente molto vicino al vuoto esistenziale del nostro tempo. Ora torniamo indietro. Torniamo all’azione, anche se tutto in un primo tempo ci fa pensare che non sia altro che un viaggio nei ricordi. Lo è, parzialmente. Brooker traccia un percorso, una linea di sviluppo. Disegna l’antologia di Black Mirror, la storia archeologica di una tecnologia che prende lentamente il sopravvento. Metalhead è il teatro del compiuto, dell’irreversibile, del grigiore finale ma anche dell’ultimo barlume di umanità (sconfitta). Black Museum è il passo immediatamente precedente. Il tempo del ricordo ancora vivo di un progresso non più umano. L’imbarbarimento nell’evoluzione tecnologica.
Passo dopo passo assistiamo a una conoscenza scientifica che si fa sempre più accurata, sempre più complessa.
Ma nello stesso tempo a questo sviluppo si lega anche un inversamente proporzionale perdita di umanità. Ecco il vero fulcro della Serie. Sembra quasi che Brooker qui voglia inserire il suo manifesto programmatico. In quelle tracce delle tragedie passate ritroviamo il fil rouge che collega ogni cosa. Nel teatro degli orrori di un mondo prossimo al nostro lo strumento tecnico non è nient’altro che passivo recettore delle perversioni dell’uomo. In Metalhead diventerà attivo e dominante, acquisterà ‘coscienza’ in una nuova età in cui efficienza e produttività si imporranno sui sentimenti.
Ma non è ancora quel momento. Brooker dopo un interludio riflessivo e scorato ci immerge nuovamente nella vita. Nel momento in cui è ancora l’uomo l’orrendo protagonista del Freak show. In quelle teche giace la tecnologia. Immobile, inerte, impotente. L’azione tragica è nel ricordo. È nell’uomo. Come un archeologo che nel terreno scorge le tracce di quello che è stato e ricostruisce la scena, così Rolo Haynes (e Brooker dietro di lui) rievoca la storia. La fa rivivere per tramite dei ‘reperti’. Restituisce senso alla passività di quella materia.
E nel farlo sembra provarci gusto, sembra caricarsi di qualcosa.
La maestria recitativa di Douglas Hodge ci restituisce la potenza immaginifica del racconto. Nel suo affannarsi c’è un piacere perverso. Rolo rievoca e si nutre di quelle storie. La perversione del suo essere è tutta nel masturbatorio ricordo dell’orrore. Come il protagonista della prima storia il direttore museale sembra nutrirsi del dolore. Sente la potenza dell’uomo che si fa Dio. Il ricordo dei tempi in cui lui stesso era Dio.
Ansima, strabuzza gli occhi, accavalla le parole, sogghigna. Passa eccitato da una esposizione all’altra. Nello stesso tempo però è quasi sopraffatto, consumato da quel tutto. Non ne è cosciente ma in lui c’è già il destino di morte. Una morte affidata alla tecnologia. Alla macchina che si ribella contro di lui in un contrappasso infernale. Ma non è ancora la coscienza virtuale a distruggerlo. No, è l’uomo. Quella bella e apparentemente inconsapevole Nish che lo accompagna nel suo ultimo racconto. L’ironia tragica, già protagonista di Crocodile, si concretizza qui in un finale carico di contraddizioni.
Black Museum sembra quasi il racconto finale dell’intero Black Mirror. L’atto conclusivo, preludio al deserto umano di Metalhead.
Nella storia di Nish, nel racconto finale, si attualizza la critica di Black Mirror. La storia archeologico-tecnologica si incarna nel presente. Tutte le altre trame hanno condotto qui. A questo momento. All’atto finale dell’uomo e della sua tragedia. La vendetta diventa espediente teatrale. Il direttore museale è divorato dal suo stesso museo, da quell’orrore di cui si era nutrito. Da quell’idea di un progresso inarrestabile. In lui c’è l’immagine dell’uomo che va incontro alla perdizione. Che trasferisce la sua disumanità nel mezzo tecnico. Sono oggetti maledetti quelli del Black Museum. In loro è stato instillato il male. E quella malvagità finisce per divorare il suo creatore.
Rolo Haynes diventa figura archetipale. Diventa l’espressione dello “scienziato pazzo”. Di chi infonde la vita nell’inanimato. Di chi genera mostri. È lui il padre del Freak show, il Faust goethiano che desidera il progresso e viene attirato da Mefistofele. Il diavolo qui non è la tecnologia in sé ma l’uomo stesso. L’uomo nella sua ricerca di piacere e conoscenza sfrenata. La deriva etica a cui si giunge è esemplificata più che nella prima storia in quella di Carrie. Assistiamo subito al pressappochismo etico, alla faciloneria con cui la donna viene staccata dalle macchine. Una donna ridotta sì a vegetale ma pur sempre perfettamente cosciente e “viva”.
Tornando alle origini dell’espianto di coscienza Brooker ci mostra l’assenza di interrogativi etici che le persone si pongono.
Lo stacco per lo spettatore è ancora più evidente perché quest’ultimo è formato alle numerose storie (Bianco Natale, San Junipero, USS Callister, Hang the DJ) da cui è già passato. Dalle riflessioni maturate. Gli attori sul campo, invece, non si rendono conto della relatività di quella coscienza virtuale. Di quanto sia “copia” del reale, riflesso virtuale della persona. Tutti sono convinti che Carrie sia ancora lì. Che sia ancora “pienamente” lei. Ma questo non fa che rendere ancor più grave l’esito della vicenda.
In un lento percorso “archeologico” realizziamo quanto quel distacco progressivo del marito e della figlia diventino espressione del nostro disinteresse. Di quella freddezza che episodio dopo episodio anche noi abbiamo maturato nei confronti dei cookies. Carrie si ritrova a essere usata, manipolata, messa in pausa. Siamo ai primordi dell’uso che delle coscienze se ne farà in Bianco Natale. Di quel sadico sfruttamento e neoschiavismo così visionariamente rappresentato.
Il cookie, ci ammonisce per l’ennesima volta Brooker, ha a suo modo un’umanità. Prova emozioni: si commuove, ama, soffre. La Carrie-virtuale è deumanizzata. Privata della libertà anche espressiva. Non può comunicare rabbia, dolore, angoscia e ogni sfumatura di emozione possibile. È umiliata in un peluche. Non a caso una scimmia, a esprimere ulteriormente questo depauperamento dell’umanità (e a creare un collegamento mentale razzista con la schiavitù). L’ironia tragica è tutta racchiusa in un’unica scena, quella in cui Emily, la nuova ragazza di Jack, prende per la gola Carrie. O meglio il peluche.
In quell’immagine c’è il senso di chi è inerme giocattolo nelle mani dell’uomo.
È il primo passo verso l’esito descritto acutamente nell’ultimo racconto. Se dovessimo tracciare una storia evolutiva dell’uso dei cookies probabilmente collocheremmo l’episodio di Carrie ai primordi, quello di San Junipero a seguire, quindi l’esito di Black Museum appena prima dell’orrore legalizzato di Bianco Natale. Si passa infatti da un’idea di cookie come vera e propria ‘essenza’ dell’essere umano rapidamente accantonata di fronte al concetto di copia (in Bianco Natale è un mezzo legale la violenza sul cookie).
Così l’ultima storia ci restituisce la tremenda immagine del riflesso dell’uomo (Clayton) che viene umiliato, sadicamente torturato ed esposto a uso e consumo del pubblico, in balia delle depravazioni più assurde. Il riflesso è simbolicamente un ologramma. Qualcosa di incorporeo, immateriale eppure drammaticamente vivo e sofferente. A esso fa da contraltare la disumanità carnale dell’essere umano vero e proprio. In un eterno balletto di rimandi e di ironia il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice. Ma sia l’uno (Rolo) che l’altra (Nish) condividono la disumana tragicità dell’uomo. Black Mirror riallaccia così i fili della sua distopia mostrandoci per una volta ancora, alfine, che quando lo schermo si spegne, dietro l’oscurità nera di quella tecnologia, non si nasconde altro che il terribile volto riflesso di noi stessi e della nostra disumanità.