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Black Mirror 5×01 – Siamo solo inappagati avatar di noi stessi

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C’è qualcosa di innaturale in questo episodio di Black Mirror, l’avete notato? La recitazione è “upperplaying“, come direbbero gli inglesi: esagerata. Eccessivamente enfatica come se si seguisse il metodo brechtiano. Questa teatralità può essere, certo, valutata come un difetto, la prova di un basso livello attoriale. Ma, a ben vedere, potrebbe nascondere altro.

È l’intero contesto di questa 5×01 dal titolo Striking Vipers a essere “upperplaying. C’è un evidente eccesso di finzione. La resa del videogioco, i gesti dei personaggi, la loro reazione alle circostanze. E questo appare tanto più evidente in avvio di episodio, quando quello che crediamo un incontro casuale e un tentativo di abbordaggio si rivela nient’altro che un gioco di ruolo improvvisato.

Black Mirror si sofferma qui, sulla quotidianità e sul logorio della routine.

Sugli infiniti problemi di una relazione che si adagia sull’ordinarietà. “Posso permettermi di trascurarmi, mi sono sistemato“, le parole del protagonista, Danny. Nel suo rapporto con la compagna ma più in generale nella sua vita c’è un silenzio pesante. Una pacatezza flemmatica che emerge nel suo profondo cambio di personalità a distanza di undici anni.

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Non ha vigore, si trascina sulle gambe. È ordinario nel vestire e nel dialogare con chi gli sta attorno. A questo guscio privo di vitalità si contrappone l’amico Karl che, vuoi per necessità, vuoi per scelta, è rimasto lo scapestrato di sempre. Nella vita dei due c’è tutta la contrapposizione carica di contraddizioni di due modi ugualmente sbagliati di intendere la crescita.

Da un lato la sicurezza di una vita tranquilla, dall’altro le gioie della libertà da single. Entrambi, segretamente, condividono una solitudine esistenziale che non può abbandonarli. La recitazione diviene allora espressione della finzione esteriore del loro modo di rapportarsi al mondo. Il padre di famiglia morigerato e lo scapolo incallito, la pacatezza e l’eccesso di vigore.

Il risultato di questo upperplaying è il ridicolo.

Danny e Karl sono buffoneschi: un quasi quarantenne che a stento riesce a muoversi e un dongiovanni che gioca ai videogame ed esce con ragazzine con le quali non ha nulla in comune.

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Danny vorrebbe salutare l’amico con una stretta di mano, espressione della convenzionalità in cui la vita adulta l’ha risucchiato. Karl si profonde in uno stridente abbraccio. C’è finzione. Come ci sarà nell’altro abbraccio, quello davanti alla moglie di Danny. Entrambi si nascondono dietro un alter ego stereotipato di se stessi. Interpretano un ruolo convenzionale nella loro esistenza. Ecco che trova allora senso questo eccesso recitativo: non tanto dell’attore in Black Mirror, ma del personaggio nella sua vita.

Per tirarsi fuori da un avatar non fanno altro che calarsi in un altro. Il paradosso sta tutto qui, in una distopia che condanna l’uomo a esprimersi realmente soltanto all’interno di un guscio fittizio. È lo stesso guscio virtuale sempre presente in Black Mirror, quello della tecnologia. L’apparente perversione di un amore virtuale sconvolge la vita dei protagonisti.

C’è qualcosa di morboso in quel rapporto e di tragicamente umano.

Un amore che trova realizzazione solo nella finzione e che perde senso nella vita vera. Il bacio “reale” non ha alcun effetto sui due, mentre quello virtuale li agita e sconquassa. Black Mirror pare introdurre qui, non troppo criticamente, un’iperbolica deriva alle attuali teorie gender fluid. Ma non è tanto questo il focus della narrazione.

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La distopia che ammanta l’episodio è tutta nell’irragiungibile soddisfazione, nel residuo inesprimibile dell’uomo alla ricerca inesausta di una felicità che non potrà mai trovare se non nella finzione. Anche la moglie di Danny, Theo, non fa altro che fingere, abbandonarsi, in quel giorno fissato sul calendario (una sorta di “festa dei folli”, carnevalesco ribaltamento dei ruoli), alla finzione di essere una donna libera e libertina.

A farne le spese è l’amore (almeno quello tradizionale), sconfitto dall’assurdità del virtuale e dal logorio della routine. Black Mirror riflette così l’uomo, esponendolo alla sua fragilità, alla sua disperante ricerca di piccoli momenti andrenalinici che gli facciano dimenticare, per un istante almeno, la prigionia asfissiante della sua condizione di infelice cronico.

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