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Black Mirror – Bandersnatch è un’esperienza assurda

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Siamo nel buco. In quell’ ‘hole’ che in inglese esprime tanto un vuoto, un’assenza nella quale sprofondare e perdersi, quanto una tana, un rifugio. In quel buco, in quella tana, il Bianconiglio ha guidato Alice. L’ha fatta immergere in un mondo di sogno e di irrealtà in cui tutto è sconvolto e l’assurdo diviene normalità. Black Mirror è diventato quel Bianconiglio. Bandersnatch è il suo mondo, è quel buco, quella tana dalla quale a fatica riusciamo a venire fuori.

Bandersnatch è anche un mostro. Un essere creato dalla penna di Lewis Carroll e menzionato, tra gli altri, nel romanzo Attraverso lo specchio, il seguito (dello stesso autore) di Alice nel paese delle meraviglie. Ma è anche il demone Pax che vuole essere venerato nel videogioco di Stefan (il ragazzo pseudo-protagonista di questo speciale di Black Mirror). È, in poche parole, l’anima profonda della distopia. Il rovescio della medaglia, il dubbio che si insinua, il non senso che anticipa la follia.

L’esperienza interattiva che Netflix realizza non è il passo finale di questo percorso, ma solo quello iniziale.

Il più superficiale. Iniziamo compiendo semplicemente delle scelte. Scelte dualistiche piuttosto dirette e insignificanti. Ma man mano che la narrazione si fa più fitta, l’interazione si allarga e viene a coinvolgerci in maniera più profonda (Stefan arriverà a interagire con noi). L’esito finale è quella tana, quel buco che ci inghiotte e ci rende vittime controllate. Protagonisti e nello stesso tempo oggetti di una distopia totalizzante.

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Protagonisti e vittime. Perché quelle scelte finiscono per tirarci in causa personalmente. Alterano la realtà e ci rendono strumenti in balia di qualcosa che credevamo di controllare e da cui in realtà siamo controllati. Diventiamo, in altre parole, i fruitori del videogame di Stefan che, in uno dei finali possibili, quello in cui il gioco otterrà cinque stelle, afferma: “Si ha l’illusione del libero arbitrio ma in realtà io decido la fine”.

La fine è pilotata. Le scelte, non più nostre. In alcuni casi porteranno a un vicolo cieco, a un ramo morto della narrazione. A un finale “tronco”, incompleto o non soddisfacente. In altri casi saranno del tutto superflue, come nell’incontro a casa di Colin dove la decisione di accettare o meno l’allucinogeno darà identico esito.

Ma dov’è esattamente la distopia in questo episodio di Black Mirror?

Non è nella trama. L’intreccio diventa orpello, accompagnamento, rumore di sottofondo di qualcos’altro. In un gioco di scatole cinesi, Stefan diventa Jerome F. Davies giungendo fino alla pazzia, e noi ci incarniamo in Stefan. Siamo nel “buco”, tanto quanto lui. Ci scopriamo a vagliare attentamente le scelte. A modificarle metodicamente. Percorriamo ogni ramificazione, siamo ossessionati da tutte le decisioni. Noi per l’episodio, come Stefan per il suo gioco. Noi come lui appuntiamo scrupolosamente la via seguita, setacciamo l’alternativa, prendiamo nota.

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Più che cadere nella tana del Bianconiglio è la tana stessa a essersi espansa come un buco nero, finendo per risucchiarci. Non siamo più fruitori ma oggetti, seppur privi di un soggetto che li osserva. C’è qualcosa sopra di noi, e sopra Stefan. Noi come lui, siamo strumenti di scelte che non prendiamo davvero. Incoscienti pedine di una distopia esistenziale. È tutta qui la forza di Black Mirror e di questo episodio in particolare. Non assistiamo più passivamente allo sviluppo della vicenda ma ne diventiamo non soltanto parte, ma interpreti.

Siamo noi i protagonisti dell’episodio. Noi gli attori principali di una distopia che ci soverchia. La vera trama non è più quella di Stefan, ormai relegata a sottotrama, a racconto nel racconto. Il livello primo e più alto della narrazione è quello che vede noi davanti alla tv o allo schermo di un computer intenti a completare una serie interattiva. Convinti di avere una scelta e inconsapevoli di quanto questa scelta sia parziale, relativa e al tempo stesso inevitabile. Il dramma è tutto qui.

Netflix diviene caricatura, più o meno consapevole, di se stessa.

Quando dalla psicologa dobbiamo scegliere se volere più azione, in realtà non c’è alternativa alla risposta affermativa (“” o “Sì, cazzo”). L’intrattenimento fatto di azione, mistero (le varie timeline sul programma PAC e P.A.C.S), horror (le scene con il demone Pax) e tensione, necessario a coinvolgere il pubblico, sono qui parodiati e portati all’estremo. La distopia è nell’intrattenimento fine a se stesso. In questo ossessivo gioco masturbatorio che ci stuzzica e ci divora. E ci lascia svuotati.

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Black Mirror sembra qui aver raggiunto l’apice, il momento finale in cui il suo mondo collassa e si ripiega sul nostro finendo per inglobarlo. La distopia non è più in una tecnologia semi-scientifica, ma nella realtà stessa. Non c’è più una telecamera impiantata nell’occhio o un telefono che dà punteggio. Niente api meccaniche o copie back-up delle persone care trapassate. Niente di tutto questo. Ora la tecnologia, oggetto del racconto, è la puntata interattiva di una serie tv. Non il gioco di Stefan, ma l’episodio stesso.

Noi come Stefan, quindi, possiamo scoprirci attori di questo racconto (come accade in una timeline se scegliamo di non lottare con la psicologa) e squarciare il velo. O possiamo continuare a calarci nel buco, o meglio, a lasciarci divorare da quel buco nero. In entrambi i casi rimaniamo inevitabilmente imprigionati in qualcosa che non possiamo controllare. Qualunque scelta compiamo, è il fatto stesso di essere davanti allo schermo a costituire la distopia. La soluzione sarebbe non dare avvio all’episodio. Solo in questa non-esistenza ci potremmo sottrarre al ruolo di protagonisti e vittime della storia.

Ma ciò, naturalmente, non è accaduto.

Così il mondo di Stefan e il nostro finiscono per collassare, per mescolarsi in un inscindibile groviglio di realtà e apparenza. Sulla scena, più di semplici easter eggs, fanno capolino continui riferimenti a episodio passati. Il glifo è quello di “Orso bianco”; lo studio della psicologa è nel San Juniper’s Medical Practice; due videogiochi della Tuckersoft richiamano i nomi e le figure di due puntate di Black Mirror (Nosedive e Metalhead) e così via. Black Mirror è uscito dallo schermo dei suoi racconti e si è alla fine attualizzata nel nostro tempo. Il futuro distopico è diventato presente reale.

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Lo ha fatto tramite un gioco psicologico chiaramente ispirato a quello realizzato da Timothy Leary, citato in Bandersnatch stesso. Leary è stato un professore, psicologo e scrittore americano, strenuo sostenitore delle droghe psichedeliche. Negli anni Novanta, appassionatosi allo sviluppo di software, realizzò una sorta di simulatore nel quale il giocatore poteva esplorare la propria psiche e mappare la mente. O almeno così prometteva. Il nome del gioco? Mind Mirror.

Ecco, Black Mirror si è tramutato in Mind Mirror. Tutte le paure più tremende messe in scena dalla serie tv hanno finito per incarnarsi in un episodio interattivo di Black Mirror stesso. In un gioco mentale. La narrazione si è fatta meta-narrazione. Il risultato è che la distopia, ora, è qui, nel nostro mondo. Ed è, insieme, tremenda e sorprendente. Siamo al di là dello specchio. Protagonisti e prigionieri.

“Le persone pensano che sia un gioco felice. Non è un gioco felice, è un cazzo di mondo da incubo. E la cosa peggiore è che è reale e noi ci viviamo”

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