La sesta stagione di Black Mirror, distribuita da Netflix da poco più di un mese, ha riportato l’attenzione generale su una questione aperta da tempo: la serie di Charlie Brooker che tutti conoscevamo, esiste ancora? Dopo l’esperimento Bandersnatch e una quinta stagione (su tutte) piuttosto al di sotto delle aspettative, i fan si erano scatenati sul web, alimentando il pensiero comune che Black Mirror si fosse, in un certo senso, snaturata. Con l’uscita di questo sesto, consistente capitolo, le polemiche hanno ripreso il proprio corso. Black Mirror non ha cambiato modalità di linguaggio, né tantomeno finalità espressive, ma è chiaro che, dai tempi di Messaggio al primo ministro, sono cambiate tante cose. I cambiamenti, tuttavia, fanno parte del flusso creativo, e una serie antologica che non fa altro che raccontare la società moderna in chiave satirica e spesso catastrofista, ha bisogno di nutrirsi proprio della stessa società, anche accettando di dover rinunciare a dare importanza alla tecnologia, un elemento da sempre imprescindibile per la serie. Più che decidere se tutto questo sia giusto o meno, oggi vogliamo provare a capire le possibili motivazioni dietro a tale scelta, ma soprattutto sfatare la tesi che un cambio di rotta sia necessariamente una cosa negativa.
Black Mirror: un ritorno al passato necessario
Gli elementi a favore della giuria che condanna Black Mirror alla gogna del “non è più come prima”, per quanto riguarda la sesta stagione, sono principalmente due: innanzitutto, per la prima volta, la serie ideata da Charlie Brooker si è affidata a scenari passati; in secondo luogo, il comune denominatore di tutte le precedenti stagioni di Black Mirror, ovvero la tecnologia, è “venuto a mancare” in più di un’occasione. Proviamo ora a elaborare entrambe le problematiche (se così vogliamo chiamarle): da un lato si potrebbe pensare che la scelta di ambientare alcuni episodi in epoche passate, invece che contemporanee o future come al solito, sia la diretta conseguenza di una saturazione di idee, di carte già giocate, una necessità di provare a tagliare i ponti con ciò che è stato fino ad ora per evitare di cadere nel ripetitivo, oppure come un tentativo volutamente esplicito di reinventarsi, di gettare le basi per nuove possibilità narrative che potrebbero conferire alla serie una nuova, fondamentale linfa vitale. In entrambi i casi, non ci sarebbe niente di male nel voler provare a cambiare pelle, dato che ciò non esclude necessariamente l’elemento tecnologico e, addirittura, può portare a elaborare critiche sociali persino più attuali di quanto si pensi. Il problema, o meglio, ciò che fa storcere il naso ai fedelissimi di Black Mirror, è l’assenza di riferimenti diretti alla società mediatica moderna. Gli episodi della sesta stagione Mazey Day e Demone 79, più in particolare quest’ultimo, non presentano, in effetti, riferimenti troppo espliciti al rapporto tra uomo e tecnologia.
In realtà, ciò che viene narrato in Mazey Day è assolutamente attuale, anzi, sembra che Black Mirror abbia voluto calcare la mano proprio sull’assurdità dei fatti per porre una critica alla società moderna, senza necessariamente chiamarla in causa. Demone 79, invece, gioca tutt’altra partita, e non a caso è l’episodio conclusivo di questa stagione. Il fatto che queste due puntate chiudano l’ultimo capitolo di Black Mirror è, con ogni probabilità, un’indicazione che gli autori vogliono dare ai fan sul “cambio di rotta” che la serie antologica (e ricordiamoci l’importanza di questa caratteristica) potrebbe avere in futuro. La necessità di Black Mirror è sempre stata quella di portare all’estremo i comportamenti e le caratteristiche della società moderna in rapporto con la tecnologia, proponendo delle brutali critiche sociali sull’eccessiva pervasività di quest’ultima nelle relazioni interpersonali e non solo; tuttavia, un cambio di rotta, per quanto estremo, non è per forza un male. Piuttosto sarebbe un peccato non sfruttare appieno la pungente velenosità a cui Black Mirror ci ha abituato, anche al di fuori del contesto tecnologico. Ecco, diciamo che un compromesso potrebbe far bene ad entrambe le parti chiamate in causa in questa “diatriba”. Ovviamente la fedeltà alla causa sposata deve restare a galla, anche perché altrimenti si dovrebbe optare per un cambio di nome della serie stessa, chiaro riferimento al rapporto tra società moderna e device tecnologici.
Perché non è per forza un male
Black Mirror, dopo anni di onorato servizio, per poter continuare a sorprendere le menti di una platea sempre più inglobata dal mezzo tecnologico, deve anche potersi concedere di uscire da questa pericolosa dimensione, perché altrimenti sì che finirebbe per ripetersi. Ed è proprio questo il punto: dopo essere “inciampata su se stessa”, la serie di Charlie Brooker ha deciso di provare a reinventarsi, di sperimentare diverse forme, per lei atipiche, di critica sociale. Non si tratta di un netto salto nel vuoto: la sesta stagione, innanzitutto, comincia con episodi in cui l’elemento tecnologico è assolutamente centrale, e non va a forzare troppo la mano, dato che la critica leggibile in Mazey Day è un riferimento a come la società moderna, che si tratti di smartphone, macchine fotografiche o altro, è sempre stata predisposta all’annullamento dell’individuo, in questo caso una star di Hollywood, in favore dello scoop, della notizia da vendere e da commentare al bar sotto casa o in fila alle poste, e non necessariamente attraverso i social. Per quanto riguarda Demone 79 il discorso è diverso, perché si tratta di un thriller puro dalle tonalità horror, ma anche qui la critica sociale è tutt’altro che scontata o banale e, anzi, gode di forte attualità: la piaga del razzismo, per Charlie Brooker e le penne di Black Mirror, è sempre stata un elemento fondamentale nella visione che doveva avere il prodotto nato su Channel 4 e acquistato da Netflix, ed in questo caso si è semplicemente optato per una critica che prescindesse l’elemento tecnologico e che forzasse lo spettatore a concentrarsi su un tema molto più ampio e stratificato.
Insomma, per quanto sia atipico non vedere mondi color pastello iper tecnologici e visionari, microchip impiantati nei cervelli o personalità obbligate a interfacciarsi con le proprie gogne mediatiche, il marchio Black Mirror continua a dimostrare di essere in grado di far breccia nelle falle di una società sempre più cinica e costruita, e se è necessario rinunciare al medium tecnologico come elemento chiave per la critica delle suddette falle – attraverso la nascita implicita di uno spin-off mascherato che offra una nuova dimensione narrativa al franchise – ecco che è lo stesso medium a trasformarsi in veicolo, mantenendo intatta la dignità di una serie che, comunque, molto difficilmente rinuncerà in toto alla propria arma migliore e, anzi, continua a studiare i mutamenti sociali per poterli riproporre in futuro con letture tutt’altro che semplicistiche. Quel che è certo, al di là di tutte le considerazioni del caso, è che Black Mirror ha messo tutti a conoscenza delle proprie intenzioni, e che dunque, in futuro, potrebbe continuare a sorprenderci seguendo una nuova e quanto mai atipica direzione.