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Metalhead avrebbe avuto senso solo se fosse stato il finale di Black Mirror

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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla 4×05 e la 4×06 di Black Mirror

Hanno vinto loro. Non ci restano altro che le note malinconiche di Golden Brown e il silenzio assordante della morte. Ci hanno rubato tutto, persino i colori. Il bianco, contrapposto al nero, emette un ultimo grido di dolore, prima di svanire nell’oblio di una vita che non c’è più. Non c’è più spazio per l’irrazionalità, nel mondo. Dov’è finita l’umanità? Dove si è nascosto l’amore? Eccolo, soffocato in una scatola piena di teneri peluche, vigilata da un ammasso di latta senza emozioni. Morte che porta altra morte, fino a spegnere l’ultima fiammella delle nostre speranze. Hanno vinto loro, perché abbiamo deciso di suicidarci. Charlie Chaplin, in uno dei momenti più belli della storia del cinema, ci aveva avvisato fin dal lontano 1940: “La scienza ci ha trasformato in cinici; l’avidità ci ha resi duri e cattivi; pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità; più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto”. Non l’abbiamo ascoltato e ci siamo ritrovati qui, nell’universo distopico di Metalhead. La grande occasione persa da Black Mirror.

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Questa affermazione non vi sorprenderà. Perché Metalhead non è piaciuto a nessuno, o quasi. È odiato, criticato, persino ritenuto insensato. E in fondo non è del tutto sbagliato. Black Mirror, nonostante abbia una natura antologica basata su una serie di episodi autoconclusivi, ha intessuto nel tempo un racconto organico, tenuto in piedi da un assunto basilare: l’uomo è alla deriva e la tecnologia, mai demonizzata, è uno strumento suicida (approfondiremo la questione nei prossimi giorni). Un filo rosso unisce tutti gli episodi, più o meno connessi tra loro. Ma poi c’è Metalhead. Metalhead è altro. Metalhead non è Black Mirror. Anche se ne rappresenta l’essenza più pura. Un rantolo primordiale, che chiude il cerchio. E allora perché non piace? Non è stato capito? Forse no (e se avete bisogno di una spiegazione leggete la splendida recensione di Emanuele Di Eugenio, la trovate qui), ma la realtà è un’altra: Metalhead, capolavoro espressivo non scalfito dalla scarsa originalità, si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Charlie Brooker, assalito dall’impellenza di realizzare per Netflix dodici episodi in due anni (dopo averne fatto sette tra il 2011 e il 2014), si è giocato, frettolosamente, un asso, buttato nel mazzo di una stagione globalmente insoddisfacente.

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Decontestualizzato, Metalhead estrania e confonde. Ma se fosse stato il finale che aveva in mente? Sarebbe cambiato tutto. Metalhead sarebbe stato bellissimo. La conclusione perfetta di una storia perfetta. Il silenzio, dopo il rumore assordante. L’ordine mortifero, conseguenza del caos della vita. Il nichilismo di chi non ha più speranze e vive gli ultimi istanti di una guerra già persa. Metalhead non può essere una parentesi: è una pietra tombale. Un po’ come Black Museum, rappresentazione ideale della galleria espressiva e tematica di Black Mirror, a seguito della quale sembra difficile raccontare una nuova storia. A meno che non sia la stessa Metalhead. Invertite l’ordine, levatevi dalla testa una quinta stagione (che invece ci sarà) e avrete il finale perfetto, necessario anche per una serie antologica. Black Mirror, dopo averci avvisato e offerto una ciambella di salvataggio che, probabilmente, non sapremo prendere, abbasserebbe il sipario con la consapevolezza di aver detto tutto (sensazione che abbiamo provato, a più riprese, nell’arco di questa stagione, ridondante e colma di déjà-vu). Ma non andrà così: questa è solo la cronaca di un’occasione persa. Metalhead è e rimarrà una storia scritta bene e raccontata ancora meglio, senza senso. Una parentesi, senza parentesi. Black Mirror, senza Black Mirror. Ha perso, chi ha avuto fretta.

Antonio Casu

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