Black Mirror si è tagliata le unghie, si è acconciata il pelo, e ora siede sulle nostre ginocchia facendo le fusa come un gattino, dimentica dei tempi in cui straziava le nostre carni e il nostro cuore con i suoi artigli di tigre. Ora è un innocuo micetto, capace al massimo di spillare poche gocce di sangue da qualche graffio superficiale, che si confonde tra le mille cicatrici di quando mordeva e graffiava sul serio. È inutile girarci attorno: questa stagione ha confermato le paure e i sospetti di molti di noi sul futuro di questa Serie meravigliosa, che è stata capace di farci riflettere sulla nostra vita dominata dalla tecnologia come nessun’altra, che ha saputo farci venire i brividi, che ha reso impossibile guardare lo schermo spento del nostro cellulare, del nostro Ipad, del nostro computer, senza intravedere per un istante una faccia che ghigna.
Avevamo affrontato il tema del declino di Black Mirror ancora durante la stagione precedente, nella quale si avvertivano le prime avvisaglie dell’immane disastro che sarebbe stata la quarta. Che il motivo del declino di Black Mirror sia nel passaggio a Netflix, e nel conseguente snaturamento e imbellettamento, è una delle tante teorie; ed è una delle tante possibili ragioni effettive, insieme a una fisiologica mancanza di idee, una pressione insostenibile, un’autoreferenzialità che spinge a copiare se stessi.
Il risultato è una stagione fiacca, con pochissime idee, che preferisce attingere al suo glorioso passato piuttosto che osare davvero; fastidiosamente buonista, in alcuni momenti trash al limite della parodia. E non si tratta di un ghigno feroce, quello che ci ammicca dallo schermo; è una risata senza emozione, soffocata da una musica trionfante, catchy, come quelle che si sentono alla fine di una puntata di una sitcom, che incorona una serie di storie in massima parte banali, concepite per un pubblico di manica larga, che vuole solo sdraiarsi davanti al divano a fare binge watching come farebbe per qualsiasi altra Serie Tv.
Ma Black Mirror non è (non era) la solita Serie Tv. Era una roba che ti prendeva alla gola, che faceva lo stesso effetto della presa del capitano Daly: ti lasciava soffocare, incapace di reagire, infierendo su di te senza pietà. Una sofferenza calmierata da un senso di appagamento intellettivo, di lavorìo interiore, che riusciva a smuovere una seria riflessione sulla nostra società, sulle nostre pulsioni di esseri umani, sul nostro futuro. Una sensazione di malessere e insieme di estasi, per la quale il Romanticismo aveva coniato una parola meravigliosa: Sublime.
Ecco, Black Mirror sapeva essere sublime. Mostrandoci la degradazione umana al livello più indicibile, facendoci provare un senso di inadeguatezza, solitudine, panico, tristezza, impotenza, e insieme regalandoci delle storie che sapevano smuovere la nostra umanità, che ci spingevano davvero a interrogarci. La bestia Black Mirror sapeva fare questo, sapeva osare; le hanno messo trucco e parrucco e l’hanno obbligata a danzare per noi, a intrattenerci. La nostra nausea si è trasformata in fame, in appetito insaziabile, perché nessun episodio di questa quarta stagione riesce a saziarci, a farci dire “è perfetto”, a suscitare in noi quelle emozioni che avevamo temuto e amato insieme.
Una delle sensazioni che sono in agguato, durante la visione di questa quarta stagione, è la noia, un senso di banalià che sembra pervadere le storie, appannando i nostri sensi e portandoci a scorrere annoiati la home di Facebook durante la visione. Un’immagine molto in stile Black Mirror, se non fosse la Serie stessa a suscitarla. Un fastidioso buonismo si insinua nelle trame, portando quasi tutte le storie a un lieto fine, o almeno ad una risoluzione parziale della storia e soprattutto del dilemma etico, che invece rimaneva dolorosamente aperto nelle precedenti stagioni.
La gelida assassina di Crocodile viene sbugiardata grazie alla coscienza di un porcellino d’India, il sadico capitano Daly ha quello che si merita, così come il viscido Rolo Haynes, l’iperprotettiva Marie, il cocciuto drone di Metalhead, in una sorta di battaglia tra il bene e il male in cui, alla fine, la peggio finiscono per averla sempre i cattivi. Tutto un altro mondo rispetto allo scioccante finale di San Junipero, insieme lieto fine e agghiacciante distopia, al finale dolceamaro di Torna da me, allo shock di Zitto e balla, al pugno nello stomaco di Messaggio al Primo Ministro.
Un’altra sensazione che predomina, in questa quarta stagione, è il deja-vu: molte storie sono, in effetti, copie nemmeno troppo velate di altre. E quando a questo si aggiunge il continuo e pressante uso degli easter egg, allora capiamo di essere davanti più a un delirio di onnipotenza dei creatori di Black Mirror, che a una serie di storie che dovrebbero mettere in discussione ogni cardine sociale e personale, ivi incluso il protagonismo.
Abbiamo la sensazione di non conoscere mai davvero i protagonisti, perché si sceglie di puntare più sulla storia, sulla quantità di azioni svolte, che sulla qualità, e il risultato sono psicologie a metà, personaggi soffocati da una trama che lascia pochissimo spazio all’introspezione, per bombardare lo spettatore di colori, colpi di scena, azioni.
E anche quando la storia è cruda, ridotta all’osso, non si riesce a scalfire la superficie del personaggio: in Metalhead la protagonista è caratterizzata quanto una comparsa di The Walking Dead, o poco più. La sospensione dell’incredulità, indispensabile nelle precedenti stagioni e dunque calibrata al millimetro, in questa viene allegramente abusata in lungo e in largo, in nome di una sequela di colpi di scena furbetti e risoluzioni alla deus ex machina, quasi fosse più importante la soddisfazione del pubblico nel sapere che va tutto bene, che sono tutti salvi, che sono stati vendicati, che staranno insieme alla fine, mentre la riflessione, il dilemma, passano in secondo piano.
Black Mirror poteva dimostrare di saper sopravvivere a se stessa, di sapersi reinventare, e invece si ritrova a rigirarsi come una trottola impazzita, ripetendo gli stessi temi di puntata in puntata: fateci caso, il tema della coscienza virtuale, declinato nelle sue forme e gradualità più disparate, è ciò che accomuna quasi tutti gli episodi, rendendoli uno simile all’altro in un infinito gioco di specchi da cui si esce esasperati, perplessi e soprattutto delusi. Black Mirror ha smesso di interrogarci su noi stessi, spingendoci ad interrogarci su di lei; e la risposta, col cuore in mano, per questa volta non può che essere un secco no.