Quando fu annunciata su Netflix la sesta stagione di Black Mirror, due erano le sensazioni che si stavano impossessando di noi: da un lato eravamo felici che stesse per tornare, perché ci era davvero mancata; dall’altro avevamo paura che, dopo ben quattro anni di attesa, non si rialzasse più dalla deriva abissale della quinta stagione. Che non fosse più la Black Mirror di un tempo. In un certo senso, è così ed è lo stesso Charlie Brooker che l’ha confermato in un’intervista:
“Si è trattata di una decisione consapevole quella di cambiare un po’ quello che è la serie. […] È stato interessante compiere un reset in quel modo. È stato qualcosa di rinfrescante e significa che poi puoi avvicinarti agli altri episodi da una prospettiva piuttosto differente.”
Purtroppo, però, a noi questa sensazione di freschezza, di prospettive diverse o di interessamento è arrivata solo in parte. O, in caso di alcuni episodi, non è arrivata affatto. Già, perché questo tentativo di trasformare le cose ha spento lo spirito di uno spettacolo affascinante, terrificante, ansiogeno, fin troppo realistico, che ci lasciava scioccati a fissare lo schermo per ore dopo la fine di una puntata. Ci metteva faccia a faccia con quella tecnologia che ha stravolto le nostre vite, concretizzava le nostre paure più profonde a riguardo e ci faceva riflettere sull’uso – spesso sbagliato – che ne potremmo fare. Nel presente, così come in quel futuro che, ormai, non è più tanto lontano da noi. I cani robot a Singapore e i punteggi social in Cina lo dimostrano. Forse è anche per questo che Brooker ha cercato un cambiamento, rifugiandosi nel passato, perché anche noi non siamo più gli stessi, perché Black Mirror lo stiamo vivendo.
Peccato che, facendolo, Black Mirror si sia snaturata e, a modo suo, si sia finanche addolcita. Diventando decisamente troppo buona. E da questa serie tv non possiamo proprio accettarlo.
Joan è terribile ci aveva ingannato. È l’episodio più alla Black Mirror della sesta stagione, dato che prende spunto dalla tecnologia per illustrare quali assurde conseguenze potrebbe avere nella nostra vita, aprendo una grande parentesi su riflessioni più ampie che riguardano i vari livelli della follia umana. Parla di intelligenza artificiale e di come viene usata nell’intrattenimento, dello streaming e di come passiamo il nostro tempo libero, dei contratti digitali che firmiamo senza leggerne i termini e del bisogno di apparire a tutti i costi. E sì, possiamo dire che un po’ ci ha messo i brividi, soprattutto per la paura che quel consenso che diamo in automatico si traduca nella rinuncia alla nostra privacy, cosicché tutti vedano la nostra vita spiattellata su Netflix. Soprattutto le parti che non vorremmo mai mostrare.
Ma poi finisce a tarallucci e vino. Il computer centrale viene distrutto, le simulazioni eliminate, Joan e Anny finiscono in libertà vigilata ma, a differenza ad esempio di Lacey in Caduta Libera, vivono spensierate, senza più problemi o grilli per la testa.
È una puntata che, in qualche modo, ricorda Bianco Natale e sì, replicare quel capolavoro sarebbe stato complesso. Ma c’è un ma. Tutta la carica maturata nella prima parte si esaurisce banalmente, così come la sua riflessione su quanto siamo ossessionati dalle disgrazie degli altri, soprattutto se sono personaggi famosi. Insomma, niente a che vedere con Messaggio al primo ministro, per intenderci. Sono temi che ritroviamo pure in Loch Henry e in Mazey Day. Nel primo caso, incentrato sulla nostra ossessione per i true crime, si rende palese quella strada del buonismo accennata con Joan è terribile. Certo, Davis è rimasto profondamente segnato dalla scoperta del segreto dei suoi genitori e la sua è una vittoria agrodolce. Ci potremmo vedere un qualcosa come 15 milioni di celebrità, ma lì le cose per Bing non erano migliorate con il raggiungimento della fama. La sua vita scorreva come sempre, nonostante il successo del suo programma, nonostante si fosse piegato al sistema. Perché è questo Black Mirror: una serie che porta alla completa e totale disfatta i suoi protagonisti, rinchiudendoli in un mondo privo di speranza. Ed è ciò che ci ha da sempre affascinato e terrorizzato della serie tv su Netflix.
Mazey Day, che è riuscito a fare ancora peggio di Rachel, Jack e Ashley Too, ritorna al tema della privacy delle celebrity, stavolta analizzata dal punto di vista di un paparazzo donna. Svolta da teen drama fantasy di scarsa qualità a parte, che ancora non riusciamo a capire, ciò che ci fa storcere il naso è la morte della giovane star. Non è resa su schermo in maniera tragica, né sconvolgente, né si porta dietro una cinica lezione. Quella morte la libera da un vita che non voleva e la ricorderà come l’ennesima diva morta troppo presto, che verrà dimenticata dopo il prossimo scandalo. Di nuovo, dov’è finita tutta la cinica crudeltà di Black Mirror? L’episodio si sarebbe potuto riprendere se solo avessero avuto più coraggio. Quello che la serie aveva avuto con Orso Bianco. Alla maniera di Victoria, avrebbero dovuto trattare Mazey come un animale da baraccone, chiudendola in gabbia e lasciandola alla mercé di tutti. Così lo spettacolo avrebbe reso al meglio la spietatezza che l’essere umano è in grado di mostrare in fin troppe occasioni. Allo stesso tempo, avrebbe posto l’accento sul fatto che, se siamo famosi, non abbiamo diritto alla privacy e non dobbiamo lamentarcene.
È questo il finale che ci saremmo meritati, lo shock che ci aspettiamo da una serie come Black Mirror. Quello in cui Mazey avrebbe solo dovuto stare zitta e ballare.
La stessa cosa succede in Demone 79, episodio che mostra le brutture umane con i ruoli di vittima e di carnefice che, spesso, si confondono. Sicuramente, è possibile intravedere nella fine del mondo una sorta di vendetta di Nida verso quell’umanità a cui non interessa conoscere il diverso ma solo giudicarlo, che ha sempre mostrato verso la ragazza razzismo e disgusto. In un certo senso, sono gli esseri umani stessi che hanno scelto la loro fine, che avviene sottoforma di quelle bombe nucleari che sono più spaventose di qualsiasi patto con il diavolo. Però, di nuovo, lo show Netflix sceglie la strada facile e banale. Come per Mazey Day, il vuoto cosmico in cui andranno Gaap e Nida diviene una liberazione per la seconda, fuggendo così da un mondo che l’ha sempre rifiutata e a cui non deve nulla. Niente a che vedere con l’apocalisse senza speranza di Metalhead; episodio contestato sì, ma che di fronte a Demone 79 deve essere rivalutato assolutamente. Perché sarebbe stata la conclusione perfetta per la cinicità di Black Mirror, altro che il finale della sesta stagione, la cui narrazione è scialba e piena di un umorismo che non apre per niente alla riflessione.
Per fortuna, arriva Beyond the Sea a ricordarci come si conclude un episodio degno di questa serie tv Netflix, lì dove la tecnologia ritorna protagonista e, alla maniera di Ricordi Pericolosi o Torna da me, viene sfruttata per fini terribili. È nel gesto estremo di David che si racchiude quella nostra morbosa abitudine di voler condividere disgrazie piuttosto che gioie, lasciando due uomini soli e costretti nel vuoto dello spazio e della loro anima. È in quelle sue azioni che, in poche parole, si nasconde la vera essenza di Black Mirror. Quella che, speriamo, la serie tv possa un giorno recuperare.