Data astrale indefinita, l’astronave USS Callister veleggia nello spazio sconfinato guidata dal carismatico e valoroso Capitano Daly insieme alla sua squadra fedele e affidabile. Ogni giorno li attende una nuova missione e lo scontro con il terribile Valdack, arcinemesi per eccellenza che Daly riesce sempre a sconfiggere con il suo incomparabile ingegno. Un quadretto niente male, peccato che si tratti in realtà di una simulazione, di una realtà virtuale creata appositamente da un uomo troppo vigliacco per affrontare la vita vera.
Robert Daly (Jesse Plemons) è in realtà un programmatore, che ha creato il codice di un gioco di ruolo di nome Infinity. Il gioco è un successo globale ma quasi nessuno conosce o riconosce i meriti del suo creatore, sfruttato dal co-creatore e socio James Walton (Jimmi Simpsons). La sua incapacità di reagire ai soprusi unita a una asocialità di fondo, hanno portato Robert a isolarsi dal mondo vero per rifugiarsi, invece, in una versione modificata da lui stesso di Infinity. All’interno di questa variante, ispirata dalla serie tv cult di fantascienza Space Fleet, Robert assume i panni del Capitano Daly, osannato dalle copie di quei colleghi che ignorano giorno dopo giorno. Ma quella di Daly è solo un’illusione nell’illusione.
Black Mirror torna a parlare di coscienza digitale, di VR e di tutte le implicazioni etiche e morali che abbiamo già osservato in White Christmas.
Con l’arrivo di Nanette (Cristin Milioti), neo assunta dell’industria la cui ingenua gentilezza la condanna al sadico gioco di Daly, la realtà della USS Callister si rivela per quello che è davvero. Un inferno digitale al cui interno le copie virtuali dei colleghi di Daly sono intrappolate come le anime dei dannati. Aguzzino senza empatia, Robert li costringe a “giocare” alla sua personalissima versione di Infinity in un loop di battaglie, battute ridicole e vittorie imbarazzanti. Il primo episodio della quarta stagione di Black Mirror risulta così in una nuova grottesca versione di Star Trek 2.0 inserita nella dimensione distopica tipica della serie tv.
Allora, perché nonostante “USS Callister” sia un episodio pressoché riuscito al 100%, non rientra quasi mai nella lista dei più memorabili dello show di Charlie Brooker? Senza dubbio esistono dei capisaldi quali “Lettera al primo ministro” e il sopracitato “White Christmas” che hanno segnato – in maniera anche traumatica – l’immaginario collettivo ma “USS Callister” è sempre stata una puntata particolarmente snobbata.
Robert Daly è la metafora estremizzata del genio incapace di vivere in società e che, per tale motivo, se ne crea una fatta su misura per sé. Abbiamo però detto estremizzata non a caso, dal momento che la realtà che Daly plasma con le sue stesse mani è la stessa che governa come un dio del Vecchio Testamento. L’incapacità relazionale dell’uomo, estraneo ai colleghi, isolato nel luogo di lavoro che ha fondato, deriso dal socio, sono tutti elementi che potrebbero rendere Daly l’eroe perfetto in cui riporre le nostre speranze. O, alla peggio, l’inetto che si trascina giorno dopo giorno con la speranza magari di un rinascita. Invece, la figura del geniale programmatore finisce per coincidere con quella del tiranno dispotico, vendicativo e quasi inumano.
Sordo alla tortura psicologica alla quale sta sottoponendo le copie virtuali, Daly non nutre alcun interesse neppure per il mondo di fuori. Gli altri esseri umani sono, ai suoi occhi, materiale genetico da utilizzare per modellare i suoi golem di dati. Il suo interesse non contempla alcun approccio di tipo prettamente fisico. I baci strappati alle donne della flotta non sono “mai con la lingua” e a tutti mancano i genitali. Un dettaglio apparentemente insignificante ma che, invece, ci rivela un ulteriore tratto della contorta psiche di questo antagonista. Privo di impulsi sessuali, per Robert l’intero equipaggio è solo un insieme di modellini da muovere e utilizzare a suo piacimento. Funko Pop di carne e ossa, se volete.
L’impostazione sci-fi dal gusto retro – scelta da Brooker in quanto grande appassionato di Star Trek – rende la fantasia di Daly, per certi versi, ancora più infantile. Non è l’immaginario distopico di rimando orwelliano o la storia, quella vera, di dittatori baffuti e/o particolarmente bassi. Si tratta, piuttosto, del capriccio puerile di un misantropo trasformato in videogioco. In una recensione, scritta ormai diversi anni fa, abbiamo già eviscerato in lungo e in largo i diversi elementi presenti in USS Callister: l’ipocrisia sociale, il genere fantascienza, il tema del doppio virtuale. Una recensione e un episodio che vi invitiamo sinceramente a rispolverare.