La prima volta che ho visto Black Mirror ho pensato: com’è possibile che questo genere di argomenti possa essere trattato in un telefilm? O meglio, che diamine è successo nel mondo per far si che una televisione pubblica come Channel 4 investa su un prodotto così “rischioso” e poco mainstream? Persino il suo formato di tipo antologico non è propriamente quel genere di struttura studiata per invogliare il pubblico ad appassionarsi e seguire le serie. Detto in altre parole, come potrà mai applicarsi la tecnica del cliffhanger in una serie tv che dura tre puntate sconnesse tra loro a stagione?
Ogni episodio girato da registi diversi e recitato da attori diversi racconta il nostro mondo, quello della dipendenza fisica e psicologica dalla tecnologia, mostrando quello che già accade da una prospettiva distopica: il gradino successivo, laddove quello che l’uomo stesso ha creato gli sfugge di mano divenendo altro ritorcendosi contro di lui. Il filo conduttore della serie è la natura invasiva di tutto ciò che ci circonda per nostro volere contrapposta alla natura autodistruttiva dell’uomo.
Quello schermo nero che ci ingoia e non ci risputa, che ci connette al solo prezzo di isolarci, che permette a tutti di straparlare su qualsiasi cosa, che confonde realtà e finzione, che ci rende indifferenti e apatici. Quello è lo stesso schermo nero della TV da cui è stato trasmesso Black Mirror per la prima volta grazie all’audacia del produttore Endemol Shine, dello sceneggiatore Charlton Brooker e di chi ha creduto nel loro progetto.
Eppure la scommessa dell’emittente britannica è stata vinta: 1,9 milioni di telespettatori durante la messa in onda del primo episodio e ben 2 milioni per l’episodio stand-alone dello speciale di Natale. La serie è stata venduta in novanta paesi e dopo le prime due stagioni trasmesse dal 2011 si prospettava di produrne una terza da trasmettere sempre su Channel 4.
Del successo di Black Mirror è venuta a conoscenza anche la Netflix che nel 2014 compra le prime due stagioni per il suo pubblico statunitense. Ma dopo un anno, propone alla casa di produzione Endemol di acquisire i diritti di Black Mirror e di investire sulla terza stagione in cantiere mettendo sul piatto 40 milioni di dollari più l’offerta di cambiare il format passando da tre a dodici puntate per stagione.
Sulle dinamiche della trattativa le voci sono discordanti. Sta di fatto che la Netflix alla fine ha vinto e che Channel 4 pare stia ripiegando con una serie fantascientifica basata sui lavori di Philip K. Dick e sviluppata sulla falsa riga di Black Mirror che vede come produttore e attore il geniale Bryan Cranston.
Se siete arrivati fin qui siete dei lettori tenaci. Ma non spaventatevi, non siamo qui per parlare di dinamiche di mercato ma di un altro aspetto che riguarda la natura di Black Mirror che forse potrà spaventare i suoi fan.
Si tratta del fatto che Netflix (così come tante altre piattaforme di streaming online e on demand) risponde ad un esigenza dettata da quel tipo di tecnologia di cui Black Mirror parla nelle sue puntate e che ha fondamentalmente trasformato il pubblico da telespettatore passivo ad account che decide cosa, quando e come guardare la sua serie. Questa però è la prima volta che Netflix compra i diritti di un prodotto a tutti gli effetti televisivo non per ritrasmetterlo ma per farlo suo. Non si limita a comprare un prodotto già messo in onda ma lo acquista in tutto e per tutto per produrlo e trasmetterlo in streaming cambiando addirittura la struttura con cui era stato pensato.
Netflix risponde non solo ad un’esigenza ma anche alla conseguenza del fatto che ci siamo abituati a guardare film, telefilm e programmi al computer/tablet/smartphone senza aspettare che il canale TV di turno mandi in onda la puntata seguente facendoci morire di curiosità e aspettative. Noi preferivamo scaricare la stagione intera e guardarla tutta di fila. Questo fenomeno è chiamato binge watching ovvero abbuffarsi guardando senza sosta lo schermo (nero). Alcuni si sono chiesti se questa inedita modalità di fruizione della serie tv possa cambiare la serie tv stessa. A questo punto, il cliffhanger non servirebbe più a coinvolgere lo spettatore ed ossessionarlo con le aspettative sulla prossima puntata ma a provocargli la voglia di ingurgitare quella stagione in una sola volta. Ed ecco che il black mirror ci risucchia.
Per usare le parole del suo ideatore:
“Se la tecnologia è come una droga – e si fa sentire come una droga – allora precisamente qual è l’area dei suoi effetti collaterali? Quest’area, tra la gioia e il disagio, è quella dove si colloca Black Mirror, la mia nuova serie drammatica. Lo schermo nero del titolo è quello che troverete su ogni muro, su ogni scrivania, nel palmo di ogni mano: lo schermo lucido e freddo di un televisore, di un monitor, di uno smartphone”.
Il punto è questo: Black Mirror è vittima della sua stessa profezia? Passando dall’essere un prodotto televisivo ad uno per lo streaming segue il decorso dei suoi personaggi? Charlton Brooker è come Bing, il personaggio della 1×2 (15 milioni di celebrità)? In questa puntata, il protagonista prende possesso del palcoscenico per urlare le sue stesse aberrazioni: usa il sistema contro esso stesso, la visibilità per dire smettetela di farvi incantare da questi criminali. Eppure, alla fine dell’episodio, si vede Bing diventare protagonista di un programma costruito proprio sulla sua ribellione. In altre parole ha ceduto e si è venduto.