Mia cara Sara,
non so se questa lettera ti arriverà mai. Ti ho cercata tanto, in questi anni, ma non sei mai più tornata. Ho fatto di tutto per cercarti, ma non ha funzionato niente: né le denunce di scomparsa alla polizia, né gli appelli in televisione, né le preghiere che ho recitato tutte le notti, prima di addormentarmi, da sola. L’ultimo ricordo che ho di te è quando te ne sei andata, furiosa. Pensavo che saresti tornata presto per scusarti con me, perché il tuo ultimo ricordo di tua madre non fosse una lite furiosa, ma non sei più tornata. Ora sono veramente sola: forse è quello che volevi, e se ti faccio in qualche modo sapere che ora sono sola più che mai, e che la solitudine mi brucia e mi strazia dentro, forse tornerai.
Non puoi abbandonare tua madre così. Io volevo solo stare per sempre con te, renderti sicura, proteggerti; ma forse ciò da cui dovevo proteggerti era me stessa.
Non ricordo se ti ho mai raccontato di quella volta, quella maledetta volta, in cui ti ho persa al parco. Eri molto piccola, ed era prima di tutto questo, prima che mi odiassi: mi vedevi solo come la tua mamma, allora, e mi volevi bene. È successo tutto nel giro di un attimo: mi sono voltata ed eri sparita. Non eri più dove ti avevo lasciato, era bastato un secondo perché il vuoto ti inghiottisse. Sai che cosa si prova a vedere il proprio figlio che gioca tranquillo, e il secondo dopo non vederlo più? Hai idea del senso di impotenza, del panico, del dolore che si prova?
La testa inizia a girarti, Sara, non ragioni più con lucidità, pensi solo al nome della tua bambina che ti riecheggia in testa, come un chiodo fisso pensi solo che devi ritrovarla, o l’aria che respiri non avrà più senso. Sara, Sara, Sara…solo questo avevo in testa.
Quel pomeriggio ha cambiato tutto, nella mia vita: non avrei mai e poi mai permesso che ti accadesse niente di male. Vorrei che sapessi, Sara, che non ho fatto quello che ho fatto per controllarti, per possederti, per toglierti la libertà, ma solo per proteggerti. Volevo che sapessi che la tua mamma avrebbe sempre vegliato su di te, come un angelo custode. Ecco, io sarei stata per te l’angelo più potente di tutti, il più vicino a Dio, e non avrei permesso nemmeno a lui di toccarti, di farti del male. Mi sono sentita più sicura anche io, sapendo sempre dov’eri, cosa vedevi, con chi parlavi.
Mi sembrava di far parte della tua vita a un livello più complesso di quello delle altre mamme, che si limitavano a chiedere ai figli come fosse andata a scuola, ricevendo in risposta dei mugugni e dei brontolii. Io invece ero sempre lì con te, a guidarti, a mostrarti quello che volevo e a nasconderti quello che ti avrebbe turbata. E per un po’ è andato tutto bene: eri una bambina felice, che non conosceva né la paura né il dolore, né l’abbandono, perché aveva la mamma sempre con lei, nella sua testa.
Poi però sei cresciuta. E abbiamo smesso di parlare, Sara: forse è questo il mio vero errore, più dell’averti scavato una tana per me nella tua testa. Abbiamo smesso di parlare, siamo diventati una famiglia normale, di quelle che si ignorano. Ho messo quel maledetto aggeggio prima di te, di mia figlia, come fosse un gioco che ormai aveva preso tutto il poco che rimaneva del nostro rapporto. Se solo ti avessi chiesto come stai, per davvero, senza limitarmi a controllare ogni tanti i tuoi parametri su quell’aggeggio; se solo non mi fossi accontentata delle tue risposte, se solo fossi andata più a fondo.
Forse non sarei arrivata a fare quello che ho fatto: sai a cosa mi riferisco. Mi vergogno ancora oggi, ancora oggi, dopo tanti anni, arrossisco di vergogna a pensare a quello che ti ho fatto. Mi sembrava di non avere altra scelta, Sara, davvero; non riuscivo a capire che un’adolescente può nascondere delle cose alla madre, ma una madre deve essere un libro aperto per sua figlia.
Ma quello che è fatto è fatto ormai, Sara: anzi, quello che HO fatto. La mia smania di proteggerti ti ha fatto crescere delle ali smisurate, e con quelle ali sei volata via da me per sempre. Non pretendo il tuo perdono, né che tu mi capisca; io stessa ti ho privato della possibilità di essere madre, di capire le mie scelte, di sbagliare. Sbagliando, compiamo il nostro destino di esseri umani: questa è la cosa che ho capito in questi anni, e avrebbe fatto sì che, se l’avessi capita a suo tempo, non ti privassi di tutte quelle esperienze sbagliate, strazianti anche, che ti avrebbero reso una donna migliore di me.
Toglierti il male del mondo dagli occhi non ti ha reso migliore, Sara: ti ha reso solo più affamata di vita, e ti ha tolto a me per sempre. La cosa che ti ho messo nella testa quando eri bambina è solo un’estensione del mio egoismo, della mia pigrizia di madre, del mio esagerato voyuerismo, della mia smania di voler controllare ogni aspetto della tua vita, anche il più intimo (e se potessi vedermi ora, sapresti che arrossisco a ripensare a quei momenti che ho spiato senza averne il diritto).
Un figlio non è un’estensione della nostra persona, Sara: l’ho capito ora, dopo averti perso per sempre. Un figlio è una persona, una persona che abbiamo creato noi, ma una persona autonoma, che dobbiamo guidare, a cui dobbiamo insegnare a distinguere il bene dal male, senza privarlo delle esperienze di vita che la natura mette sulla loro strada. Spero che un giorno, quando sarai madre, capirai cosa ho provato ad averti persa così piccola, il senso di disperazione che ho vissuto, e che farai scelte diverse dalle mie. Spero davvero che, un giorno, sarai madre, e che sarai una madre migliore di quella donna fragile e perversa che ti ha messa al mondo. Ma di questo sono sicura: dopotutto, ti basterà non seguire le orme di quella scellerata di tua madre.
Ora ti lascio Sara, perché le lacrime mi appannano la vista e non riesco a continuare. Stammi bene, figlia mia, ovunque tu sia e con chiunque ti trovi. Io non so dove sei, ma ti auguro ogni felicità.
Con amore, nonostante tutto, la tua mamma
Marie.