ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler su Blue Eye Samurai, la serie animata disponibile su Netflix!!
Blue Eye Samurai è una serie che va guardata. Non vista, proprio guardata. Gli occhi devono perdercisi dentro e poi ritrovarsi. Devono spaziare, muoversi, contorcersi e distendersi. Ha un’impalcatura estetica che dà piacere allo sguardo. Lo cattura, lo ammalia, lo trascina nelle valli immense del brullo Giappone medievale. E poi lo restituisce al trambusto dei villaggi affollati, alla caciara delle taverne sudicie di strada, all’imponenza dei castelli di pietra che incutono timore in chi guarda. Blue Eye Samurai è bella già così. Come spettacolo per la vista, delizia dello sguardo. In fatto di serie tv animate, Netflix ha sfornato grandi titoli.
Tutto il comparto grafico ha lavorato alla realizzazione delle immagini con una cura pazzesca.
Nulla è mai fuori posto. I colori sono nitidi, liquidi. Ogni variazione cromatica è agganciata a uno stato d’animo. Lo riflette o lo controbilancia, per accrescere nello spettatore le sensazioni contrastanti che la trama vuole evocare. I paesaggi sono così puliti, trasparenti, che si ha l’impressione di essere ogni volta davanti a un’opera d’arte. Il character design è accurato e dettagliato. Le sequenze d’azione sfiorano il capolavoro. I combattimenti diventano una specie di danza nella quale i personaggi si muovono con armonia. Fluidi, disinvolti, magnetici. Ma Blue Eye Samurai non si ferma solo alla bellezza estetica. Non è solo forma. È anche sostanza, meravigliosa sostanza.
La serie animata, già rinnovata per una seconda stagione, è un’esplorazione cruda e spietata di sentimenti angoscianti e foschi.
È ambientata nel Giappone medievale, nel periodo Edo (negli stessi anni di Shogun, l’istant cult di Disney+). Siamo in una fase particolare per la storia del Paese. Con un decreto di espulsione, ogni straniero è bandito dal regno. Gli uomini bianchi, i colonizzatori, non possono portare i propri traffici sulle coste del Giappone. Gli europei sono il male, latori di disgrazie e sventure. Il seme della depravazione e della corruzione. Siamo in un mondo profondamente e orgogliosamente chiuso. Chiunque presenti i tratti della diversità è ostracizzato. Bistrattato, umiliato, in alcuni casi persino messo a morte. Mizu, la protagonista di Blue Eye Samurai, è diversa. Ma non è stata lei a sceglierlo. La diversità le è piovuta addosso come una disgrazia. Una malattia congenita, diffusasi a partire da un seme malato. Quel seme glielo ha trasmesso suo padre, uno dei quattro uomini bianchi presenti in Giappone al momento della sua nascita.
È sulle sue tracce che si mette Mizu, guidata da una furia cieca. La giovane guerriera vuole uccidere l’uomo che l’ha messa al mondo, colui che l’ha condannata alla diversità. È disposta a tutto pur di raggiungere il suo scopo. Collera e disperazione afferrano la mano della protagonista, facendo di Blue Eye Samurai una storia di vendetta e sangue. È tutto molto fosco nelle trame della serie Netflix. Mizu si mette in viaggio fiutando le tracce di uno dei quattro europei della sua lista. Non è un viaggio agevole il suo, tutto il contrario. Essere una donna che si spaccia per uomo nel Giappone del periodo Edo è una fatica enorme. Le difficoltà e gli intoppi sono sempre dietro l’angolo. Talvolta hanno il volto di un giovane samurai in cerca di gloria. Altre volte quello di un esercito di guerrieri mandati a contrastarla.
Mizu è il cuore di ghiaccio che fa muovere Blue Eye Samurai.
I suoi splendidi occhi blu sono la croce che è costretta a portare in un mondo che disprezza il diverso. Diversità, accettazione, rifiuto, colonialismo sono alcuni dei temi che la serie ingloba al suo interno. La storia della giovane samurai è un’occasione per parlare di rabbia e furore. E di apertura al mondo esterno. È tutto molto ermetico in Blue Eye Samurai. Il Paese ha scelto di chiudersi all’esterno, di sigillare i propri confini e non lasciare aperto nessuno spiraglio. Non esistono integrazione e accoglienza: il Giappone ha optato per una cesura col mondo esterno per paura di venire travolto. Così alimenta la cultura del fanatismo e dell’intolleranza, scudi dietro i quali nascondere le proprie vulnerabilità.
Ma questa chiusura della società si riflette anche nel comportamento dei suoi personaggi.
Mizu non riesce ad aprirsi al mondo esterno. Nasconde se stessa, i propri occhi azzurri, la propria diversità. Mizu è un mostro non solo per chi la guarda, ma soprattutto per se stessa. Questa mancata accettazione di sé, la convinzione di essere sbagliata, storta, difettosa, inadeguata, la porta a disprezzarsi. Mizu ha il buio negli occhi. Una cavità tenebrosa in cui marciscono sentimenti torbidi. In Blue Eye Samurai la levigatezza delle immagini contrasta con la scabrosità del suo furore cieco. La diversità e la mancata accettazione di sé alimentano l’odio. Ma mentre alcuni personaggi provano a proiettarsi in avanti nella speranza di riuscire a migliorare se stessi e a conquistarsi un posto nel futuro, Mizu resta invece ferma, intrappolata nel suo odio. Prigioniera della collera e della brama di vendetta. E il suo non è l’unico personaggio a pagare lo scotto di una “diversità” non richiesta.
Alle persone che la circondano e la accompagnano nel suo viaggio, manca sempre qualcosa. Il cuoco Ringo non ha le mani e deve industriarsi per non far pesare la sua disabilità fisica sugli altri. Maestro Eiji, l’anziano fabbro che produce spade, è cieco e deve sfruttare gli altri sensi per realizzare lame perfette. Ma anche lo spavaldo Taigen, spadaccino formidabile, e la principessa Akemi, figlia di uno dei nuovi aristocratici del Giappone, sentono di non essere del tutto adeguati. L’ansia di colmare le imperfezioni però, li spinge a trovare dentro di loro una forza che li proietta in avanti e non indietro. A differenza di questi personaggi, lanciati prepotentemente verso il futuro, Mizu è invece bloccata in un movimento circolare, che la trascina sempre all’origine del suo cieco furore.
Blue Eye Samurai è una storia che, nel momento in cui si dipana sullo schermo, riesce a incorporare in sé il viaggio e l’approdo.
Resta ingabbiata in se stessa, ma tende speranzosa una mano verso l’esterno. È violenta, brutale, angosciante, eppure conserva una certa morbidezza, esaltata dalle immagini che si susseguono nel corso delle otto puntate. Tra scenografie mozzafiato, grandi combattimenti e una fantastica colonna sonora, questa ha fatto centro, anche se in Italia si tende a snobbarla. È un peregrinare in una terra inospitale, magnificato da una grazia delle immagini che riesce veramente a catturare lo sguardo. Una storia di sentimenti furiosi che trovano sfogo nell’eleganza dei combattimenti, nel vuoto di parole, nello sbattere incessante contro le barriere comunicative. È una serie che va guardata perché ha quella forza necessaria a stagliarsi nel panorama delle serie animate come una perla di rara bellezza. Impetuosa, intensa e brutale, possiede il raro potere di incantare con le immagini e affascinare con la scrittura. È una serie che non dovreste perdervi.