I primi due episodi della sesta stagione di Bojack Horseman ci hanno dato un assaggio della vita di Bojack dall’inizio della rehab e di quella di Princess Carolyn dopo l’adozione di un figlio. Scelte importanti, che in modo diverso e opposto hanno stravolto la vita di due delle vittime di Bojack Horseman, ossia se stesso e la storica agente/fidanzata/amica intima. La 6×03 invece apre il nuovo capitolo di vita di una persona che non ha mai avuto bisogno di altri carnefici all’infuori di se stessa. Diane Nguyen infatti è sempre stata un’esperta nell’arte di castrare la propria felicità con mezzi tutti suoi. Non a caso si tratta di una delle poche persone della serie cui Bojack non deve particolari scuse. E forse anche per questo l’unica con cui è sempre riuscito ad aprirsi, mostrando il meglio e il peggio di se stesso.
Come sempre fin dall’inizio Diane rappresenta l’essenza e la voce della coscienza di Bojack Horseman.
Una connessione che si palesa nella 6×03 con una serie di lettere che Bojack le scrive durante il percorso di riabilitazione.
Un flusso di coscienza che accompagna in background lo scorrere apparentemente fluido e sereno di una vita, quella di Diane, che come quella dei suoi cari ha subito uno scossone. Nella scorsa stagione infatti abbiamo visto la giornalista di Girl Croosh affrontare la fine del suo matrimonio con Mr. Peanutbutter. Una relazione che, per quanto condannata da un’ovvia incompatibilità dei due, rappresenta pur sempre un fallimento sentimentale difficile da accettare. E non di meno il ritorno a una solitudine emotiva che anche il più forte e indipendente degli esseri umani teme.
In questo episodio vediamo Diane trovare finalmente la chiave di una serenità almeno apparente. Coraggio e un pizzico di fortuna sono stati poi l’olio attraverso cui quella chiave ha permesso l’apertura di una nuova porta nella vita di Diane: la possibilità, anche minima, di fare la differenza. Una strada dalla direzione vaga, tanto sognata e ricercata dalla scrittrice. Una donna che – come visto in questo articolo – ha vissuto tutta la vita non all’inseguimento di una felicità astratta come i più, ma alla ricerca di un senso da dare alla sua esistenza.
Un senso che si traducesse in un fine più elevato dell’essere il semplice ingranaggio di un sistema enormemente più grande. Che la rendesse diversa, “utile”, in un mondo di ingiustizie e menefreghismo. Lo stesso senso in cui far risiedere il segreto della sua felicità.
Feel-Good Story apre questo capitolo della vita di Diane con l’illusione che la donna abbia finalmente trovato l’isola del tesoro. E che il bottino si concretizzi in un lavoro appagante, che faccia la differenza come da lei sempre sognato. E con un bonus inaspettato: il genuino affetto che finisce per legarla sentimentalmente al collega di lavoro, Guy. Un uomo gentile, divertente, semplice come il suo ex marito ma senza dubbio più consapevole del mondo. E finalmente legato a lei da interessi più concreti.
Nella sua sconfinata semplicità, questa vita sembra il paradiso che Diane non ha vissuto neanche quando il suo tetto era quello di una lussuosa villa di Beverly Hills invece di un rottame della periferia di LA. Ma per una persona tanto introspettiva quanto complessa come Diane, nulla è semplice. Non i principi morali, nè gli ideali cui conformarsi. E tanto meno l’amore.
Così l’idillio di una vita che sembra avere finalmente un fine ultimo si trasforma nuovamente in una sorta di cospirazione dell’universo di cui risolvere le trame più misteriose.
Una delle inchieste di Diane – paradossalmente quella che avrebbe dovuto smorzare i toni più lugubri delle sue ricerche – le si ritorce contro vanificando il suo lavoro. La vendita di Girl Croosh a un colosso del capitalismo americano impedisce alla giornalista di portare avanti la sua lotta a quest’ultimo rendendola paradossalmente una sua impiegata. Un plot-twist che sconvolge i suoi piani ma cui non si dà per vinta. Eppure un’ulteriore sconfitta alla sua ribellione al sistema stabilisce definitivamente dei paletti invalicabili tra la sua lotta e ciò che sembra non poter essere sconfitto in questo mondo. Una stoccata al moderno capitalismo che Bojack Horseman scocca con l’immancabile ironia e l’intelligenza di chi non risparmia davvero nessuno.
Nel ritorno a una realtà fatta di regole sociali difficili da combattere (e abbattere) l’unico scorcio di serenità nella vita di Diane sembra essere Guy e il tenero rapporto che li lega. È come la visione di un’oasi nell’infinita distesa di un deserto, e come tale viene trattata da Diane. Con il desiderio bramoso di tuffarcisi dentro dimenticandosi quanto arduo sia stato il percorso. E al tempo stesso con la diffidenza di chi procede verso un miraggio.
Il modo in cui Diane riesce a travisare un semplice gesto di premura ci fa salire il sangue alla testa.
“Classic Diane”. Come si può essere tanto autodistruttivi da autosabotarsi ogni qualvolta un barlume di felicità si affaccia alla miseria della nostra vita? Vien da pensare. In fondo non è la prima volta che Diane vede in un regalo dei secondi fini – presumibilmente egoistici – da parte di qualcuno che tiene a lei. L’avevamo vista fare altrettanto alla fine della quarta stagione, quando decise di porre fine al matrimonio con Mr. Peanutbutter. Se allora avevamo saputo in qualche modo giustificarla stavolta ci è chiaro come funzionino le cose per lei. Non sono i gesti teatrali a disturbarla. Nè la dura verità in merito a una relazione che funziona solo forzatamente.
Si tratta dell’eterno spaccamento tra la razionale necessità di bastare a se stessi e il desiderio inarginabile di lasciarsi andare ammettendo di aver bisogno di qualcun altro. Una confusione che è costata a Diane anni di relazioni destinate a finire e immeritata solitudine, priva finanche della certezza di quale della due sia la piaga peggiore. O il male minore. Uno spaccamento interiore che le è costato sofferenza tanto quanto la faticosa ricerca di sè stessa su e giù per il mondo. Di parola in parola, scritta più per fini pratici che per bisogno.
E così la 6×03 di Bojack Horseman ci mostra ancora una volta le trame dell’incomunicabilità, verbale ed emotiva, che affligge il nostro tempo.
Tornano ancora una volta quegli standard impossibili da raggiungere – anche per se stessa – che opprimono da sempre la vita di Diane. E con ciò il gioco forza tra la volontà di restare fedeli a se stessi e il bisogno di cedere. L’inutilità di un orgoglio che appartiene a molti e senza il quale, forse, vivremmo molto meglio. In fondo, quale può essere la cosa peggiore che può capitarci quando decidiamo di lasciarci andare? Probabilmente è la stessa domanda che si sarà posta Diane durante il viaggio di ritorno a Los Angeles. Un posto in cui null’altro, se non il piacevole clima della California del sud, può più scaldarle il cuore.
Forse, per la prima volta, Bojack è stato in grado di farle vedere le cose con chiarezza, e non il contrario. Con quelle stesse lettere che dovevano essere strumento di analisi per un cavallo andato in rehab. Con parole che sono valide tanto per un autodistruttivo come Bojack Horseman quanto per un’iperrazionale Diane. E altrettanto per noi, che facciamo parte della realtà, e forse siamo ben rappresentati da entrambi.
“Ho speso così tanto tempo a sentirmi da schifo pensando che non vi fosse altro modo d’essere. Non voglio farlo mai più.”
È tempo di dimenticarsi delle pressioni, degli standard, degli ideali per Diane. Ora è il momento di aspirare a un perfetto panino al formaggio grigliato altrove, non importa per qual ragione. È tempo di una storia che faccia sentire bene lei per prima. Di un lieto fine che sia in realtà un nuovo inizio. Ma sarà davvero un felice inizio?