Avete presente quel misto di libertà e paura che si prova al termine della laurea? Quando si lascia definitivamente l’università per entrare nel mondo del lavoro? Nella mia realtà, lontanissima da quella di BoJack Horseman, è a questa sensazione che ho ripensato nel vederlo annusare l’aria appena fuori dal cancello di Pastiches. Sì bramoso di riconquistare “libertà” e possesso del proprio tempo, ma altrettanto perso, fuori dal cancello che circoscrive il rifugio in cui ha rimesso insieme i pezzi del suo spirito.
In fondo, quella sorta di prigione d’alto borgo estremamente costosa in cui BoJack è stato esiliato si è trasformata, nel corso delle settimane, in un porto sicuro. Un limbo in cui le scuse valgono ancora e le massime filosofiche sembrano di facile applicazione. Pastiches è stata per sei mesi una mamma che lo ha cullato e protetto dalla tirannia di quel mondo che lo ha reso tanto bestiale.
La 6×05 di BoJack Horseman ci mostra quanto arduo sia il distacco dal caldo abbraccio di quella madre.
Lo fa accompagnandoci attraverso una fase molto delicata del processo di guarigione di BoJack. Una fase di cui forse nè lui nè noi avevamo considerato appieno la difficoltà: la risalita sulle proprie gambe. L’abbandono del limbo e il reinserimento in quella stessa realtà che ha portato BoJack al check-in della rehab sei mesi prima. Una fase più spaventosa di quanto sembri. Perchè andare volontariamente in riabilitazione, certo, non è semplice (una scelta di cui avevamo parlato qui). È una scelta che richiede coraggio, ferrea determinazione e coscienza dei propri limiti. Ma abbandonare la riabilitazione è di gran lunga più difficile.
Perchè in fondo, quando sei un alcolista o un tossicodipendente che ha già fatto terra bruciata attorno, hai ben poco da perdere.
Ma quando hai ripulito corpo e spirito la posta in gioco è più alta.
È un tesoro faticosamente racimolato tra le macerie della propria esistenza che ha il profumo della speranza. La speranza che per te ci sia ancora una possibilità di essere migliore, di essere felice.
Quella di cui BoJack chiedeva disperatamente a Diane nella prima stagione senza aver risposta. Ma ora è lì, a portata di mano, in quella clinica che ha tanto paura di abbandonare.
Perchè prima di fare quel check-in, il timore più grande era di non cambiare, di restare sempre e comunque uno st****o, ma sobrio.
Adesso il timore è più feroce. È un mostro che sussurra alle sue orecchie una subdola domanda: “e se non ce la faccio, là fuori, da solo?”
Un dubbio lecito per chi ha imparato già da molto quanto spaventoso sia il mondo. Ma soprattutto quanto cinica sia la verità sui “cambiamenti” e sulla “guarigione” da una dipendenza. E cioè che non esistano davvero.
Lo sa Sharona che l’idea di un “nuovo inizio” è solo zucchero che addolcisce una pillola più amara. Ne è consapevole dal momento stesso in cui diventa vittima dell’uragano BoJack Horseman, all’alba della sua intensità.
Quando la pugnalata inferta a Herb corrompe irreversibilmente la sua anima. Lo sa Doctor Champ, che un addicted non guarisce mai davvero. Convive per il resto della propria vita con la propria debolezza controbilanciandola con la ferma decisione di non cedere mai più al vizio. Ma siamo esseri umani – o animali, nel mondo di BoJack Horseman – e pertanto fallaci anche quando meno ce lo aspettiamo.
Non è il mondo là fuori a essere spaventoso di per sè, ma la nostra reazione nel momento in cui dobbiamo difenderci dallo stesso, a far paura a chi come BoJack ha imparato a non credere nel lieto fine.
Possiamo forse dargli torto?
Eppure un lieto fine c’è, per quanto non sembri così chiaro allo spettatore.
E non è BoJack che sputa la Vodka al posto di berla.
Nè sfiancarsi in salita per una (non tanto) trionfale freddura – seppur worthy. È la sua volontà, stavolta più genuina che mai, di non ricascarci ancora. Non solo nell’alcolismo, ma in quell’approccio deresponsabilizzante cui negli anni BoJack si è assuefatto. Quell’atteggiamento che lo ha trasformato, sbaglio dopo sbaglio, nel cavallo che è ha varcato la soglia di Pastiches sei mesi prima. Una dinamica che ci dà la speranza che davvero BoJack Horseman stia imparando dal suo passato. Che stia usando i propri ricordi non per commiserarsi, ma per costruire con le sue azioni quel lieto fine che non ha mai avuto. Nella forma di un cavallo che non è mai stato.
Una cosa che forse Diane, dall’altra parte del paese, sta dimenticando.
Dopo esser stata la voce della coscienza che ha innescato il (possibile) cambiamento di BoJack, ora sembra cadere in quegli stessi errori che al tempo furono propri del suo migliore amico. Ma è una situazione difficile da giudicare. Quella sequela di “I Am Terrible” che omaggia il genio di Kubrick ha la spaventosa risonanza di un nemico che può essere in agguato per chiunque: la depressione. Non sappiamo ancora se sia ciò di cui si tratta per la scrittrice, ma temere questo risvolto su cui la serie ha sempre posto l’accento, sembra lecito.
La 6×05 di BoJack Horseman ha dei grandi meriti. Un’ironia che ricorda la prima stagione. Il disorientante gioco di parole tra il titolo e il contenuto dello scorso episodio. Ma al di sopra di questi spicca l’aver saputo contrapporre in modo unico la necessità di re-imparare a camminare da soli col saper chiedere aiuto.
Non è un caso che la fase di check-out di BoJack sia stata raccontata in concomitanza col disagio di Diane. Il contrasto mette in luce quanto assurda sia la vita nelle infinite trappole che tende. A volte è tempo di spiccare il volo sulle proprie gambe. Altre volte la presenza altrui può essere decisiva nonchè fondamentale. Capire quale sia il momento per cosa evitando di farsi ingannare da se stessi non è cosa semplice.
BoJack e Diane ne sanno qualcosa, e ci stanno mettendo in guardia.