Kelsey, in questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo. Mi dispiace averti fatta licenziare. Mi dispiace non averti mai più chiamata
BoJack Horseman non è una semplice Serie animata. Chi ci si è confrontato non può aver fatto a meno di notarlo. È innanzitutto la storia di un personaggio complesso e sfaccettato. Un individuo in cui tutti noi, almeno una volta, ci siamo riconosciuti. Nel suo cinismo, nel suo apparente disinteresse per gli affetti e i sentimenti si concentra la difficoltà del vivere. Il peso di un’esistenza che non regala nulla, di una realtà fredda e arrivista. Gradualmente veniamo a scoprire sempre meglio la morale distorta di un personaggio che ha smesso di vivere, che ha deciso di lasciarsi andare. Bojack aspetta la morte, aspetta che questo incoerente balletto che chiamiamo vita si concluda. Che i suoi dolori e i suoi ricordi carichi di sofferenza lascino il posto soltanto al vuoto di un non-essere.
Ma dietro questa apparente sconfitta, dietro questa visione remissiva, si nasconde altro. Si nasconde, come spesso accade, la speranza. L’irreale convinzione che un cambiamento ci sarà, che le cose andranno in modo diverso, che una ricomposizione relazionale potrà avvenire. Bojack non lo ammette mai. Non lo riconosce neanche a se stesso perché è più facile convincersi che non c’è un’altra via. Che il suo destino sia segnato. Perché questo significa evitare di lottare, evitare di affrontare il tremendo percorso di chi costantemente dovrebbe confrontarsi e relazionarsi positivamente con l’altro. Come afferma la saggia scimmia alla fine della seconda stagione: “Diventa più semplice. Devi farlo tutti i giorni, questo è il difficile. Ma diventa più semplice”.
Ma Bojack non ha quella forza. A un gesto riparatore segue quasi inevitabilmente un nuovo errore.
Continua ad autodistruggersi, a boicottarsi perché aprirsi all’altro significherebbe esporsi alla delusione. Significherebbe superare il senso di colpa. Quella responsabilità che sente propria a causa di una madre che lo reputa l’artefice della sua vita sciatta e rassegnata. Bojack vive costantemente con questo peso, un peso che lo accompagnerà in ogni rapporto. E a cui si aggiungeranno sbagli e pentimenti che non faranno altro che accrescere la sua convinzione di inadeguatezza e il suo conseguente desiderio di punirsi.
Tutto questo, tutta la complessa intelaiatura morale che caratterizza Bojack Horseman trova piena espressione in un episodio più che in ogni altro. Molti forse non lo riterranno il migliore e si potrebbe discutere a lungo al riguardo. Ma il quarto episodio della terza stagione, “Un pesce fuor d’acqua”, è capolavoro e sintesi finale dell’intera Serie. Tralasciando la stupenda costruzione registica di un episodio realizzato quasi interamente senza parole resta la profondità di un messaggio che si fa quasi monito.
Pesce fuor d’acqua è naturalmente Bojack. Nel mondo sottomarino in cui si trova non è altro che un estraneo, un individuo catapultato in una realtà che non comprende e soprattutto in cui non riesce a comunicare. Ecco, la comunicabilità, l’estremo, finale desiderio di Bojack Horseman. Il superamento di quello stacco che lo separa dall’altro, che lo allontana da chi ama o vorrebbe (e potrebbe) amare.
L’intera puntata gioca su questa difficoltà di farsi capire, sul valore stravolto dei suoi gesti (il pollice alzato), sull’impossibilità di relazionarsi con chiunque.
Eppure, qualcosa cambia, qualcosa in lui cresce. È un sentimento che si sviluppa a poco a poco e non lo abbandona più. Un affetto sincero che lo lega irrimediabilmente a un cavalluccio marino. Quel neonato diventa espressione massima dei suoi desideri affettivi, della possibilità di riconoscersi in lui e realizzarsi. Nel prendersi cura di lui sembra sviluppare una sua maturazione, una crescita personale e interiore che lo responsabilizza e lo allontana dai suoi errori.
Bojack rincorre disperatamente per tutto l’episodio quel piccolo esserino. Lotta per tenerlo a sé, per proteggerlo. Non servono più parole, non occorre altro. C’è solo la profondissima emozione di un sentimento sincero. Che non necessita di altro che di sorrisi, carezze e affetto. In quel mondo che non conosce, in quella realtà estranea e bizzarra il nostro cavallo antropomorfo trova qualcosa di intimo e dannatamente reale. Quel mondo subacqueo non è altro che la realtà di ogni giorno. La quotidianità ovattata. L’intorpidimento di emozioni e rapporti. Una vita vissuta col respiro trattenuto. Una società in cui non si riconosce e in cui rappresenta un pesce fuor d’acqua.
“Kelsey, in questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo”. È tutto qui il senso dell’epifania di Bojack Horseman, la finale rivelazione che fa a se stesso. Ma non è sufficiente per ricomporre le cose. Non basta solo rendersi conto dell’importanza dei rapporti per viverli a pieno. C’è da superare la barriera, da vincere le coercizioni dell’esistenza. Bojack non riesce in questo, non ha la costanza né la forza per farlo. È costretto ad abbandonare quel cavalluccio marino che non pare accorgersi del suo allontanamento non rispondendo neanche al saluto di Bojack. Quello che per lui rappresentava qualcosa di speciale diventa solo uno dei tanti per il padre del piccolo esserino. Uno tra cinque fratelli.
E anche ora, anche in questo momento, Bojack Horseman non viene compreso.
Il suo indugiare davanti all’uscio, la difficoltà di dire addio a quel neonato a cui si era legato è percepita come una richiesta di denaro. Come un desiderio di ottenere una ricompensa per aver restituito l’animaletto. È tutta qui la disperazione di un essere umano racchiuso nell’aspetto di cavallo. La distanza che lo separa da chiunque. Tutti vivono la loro vita facendo a meno di lui, rendendolo superfluo. Non necessario.
La distanza irreparabile si riattualizza così per l’ennesima volta nel rapporto con Kelsey. Bojack vorrebbe chiarirsi e per farlo si mette a nudo. Compone un messaggio che è grido disperato, che è richiesta d’aiuto e di perdono. “In questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo”. I legami. Quelli che restano tragicamente a lui preclusi, distanti un muro di incomunicabilità. La stessa incomunicabilità che si rivela nella consegna del bigliettino. Kelsey non può leggerlo perché l’acqua ha disperso l’inchiostro, ha disperso le parole.
Quell’acqua che non è altro che assenza di appiglio, di terraferma, di solidità.
È inafferrabilità di ogni cosa, di ogni valore. Ogni cosa scivola dalle mani del protagonista senza che possa essere trattenuta. Nella società liquida in cui Bojack Horseman vive, o meglio vivacchia, non c’è una sola morale solida, un solo ideale in cui credere davvero. E l’acqua che scorre indifferente e lo bagna di fredda solitudine cancella anche la speranza. Cancella l’idea finale di un rapporto con il prossimo che può salvare, che può dare senso all’insensatezza dell’esistenza.
La profonda morale nichilista di questo episodio sembra dirci che non c’è possibilità. Che saremo soli con noi stessi. E che l’incomunicabilità avrà la meglio. Eppure, facciamo di nuovo nostre per un attimo appena le parole della scimmia nella 2×12: “Diventa più semplice. Devi farlo tutti i giorni, questo è il difficile. Ma diventa più semplice”. Forse non è così, forse non diventa più semplice. Ma dobbiamo provarci tutti i giorni. Perché in questo mondo terrificante la speranza finale non può che essere affidata al tentativo di superare la distanza che ci separa dall’altro. Non può che essere affidata all’amore.