La scorsa settimana ci siamo soffermati in questo articolo sull’analisi di uno dei personaggi meno citati di Boris, Arianna. Questa settimana vogliamo parlare di un altro personaggio che troppo spesso cade nel dimenticatoio pur essendo in qualche modo la voce narrante della storia, Alessandro. Anche in questo caso le ragioni sono da ricercare nella caratterizzazione del personaggio, disegnata per far creare il profilo di una sorta di fantasma sul set de Gli Occhi del Cuore.
Una macchina, un furetto, senza nome o volontà. Che osserva i lavori contribuendo con ritagli spesso insignificanti. E che apporta dunque un livello di epicità nettamente inferiore rispetto a personaggi come Renè, Duccio o Mariano. E in questo il connubio tra caratterizzazione del personaggio e percezione da parte dello spettatore risponde perfettamente allo scopo ricercato dagli sceneggiatori di Boris. Alessandro è, difatti, quasi invisibile ai nostri occhi.
Eppure dietro le sue gesta c’è così tanto degli innumerevoli messaggi mandati allo spettatore tramite il tono da tragicommedia per il quale abbiamo amato Boris.
Messaggi svariati, che assumono sfaccettature diverse man mano che la storia va avanti. Perché Alessandro non si fa semplicemente simbolo di quella polemica – neanche troppo velata – alla dimensione lavorativa italiana. Quella dimensione che è riuscita in ogni settore a trasformare il lavoro in un favore più che in un diritto. In cui quello che un tempo si delineava come sfruttamento oggi assume la fuorviante connotazione del “fare esperienza”. E che attraverso i comunissimi stage è riuscita a confinare un gran numero di giovani laureati in nuovi schiavi del sistema.
Alessandro rappresenta l’oggetto di tutto ciò, ma è molto di più. È il paradigma perfetto del giovane italiano di oggi che affronta le ombre di un nuovo modello sociale ma anche lo spettro di se stesso. Di ciò che ha assorbito da quello stesso modello sociale in cui è cresciuto. Senza dubbio lo stagista de Gli Occhi del Cuore risponde ai canoni di un comune neolaureato. Molte nozioni, poca pratica, e tanti sogni. Quelli che ti fanno sperare in un mondo in cui le difficoltà maggiori sono ormai è alle spalle. E, seppur ancora in salita, alla fine di questo percorso fatto di gavetta e altri sacrifici, c’è un premio per il quale val la pena lottare.
E potremmo dire con retorica e una certa banalità che così dovrebbe essere. Che forse così era un tempo, per i giovani italiani che dopo gli studi sia avviavano verso la carriera tanto sospirata.
Ma la fotografia scattata da Boris all’odierna realtà italiana mostra dinamiche ben diverse, che affondano le proprie radici in qualcosa che va ben oltre la semplice evoluzione di un sistema sociale. Mostra attraverso gli occhi, sempre più delusi e a volte arresi di Alessandro, le conseguenze di una società che ha cresciuto le nuove generazioni di studenti a colpi di frusta. Insegnando loro a metter da parte i sogni per “guardare più razionalmente alla realtà”. Una realtà in cui non sempre – per non dire “quasi mai” – chi ha talento ottiene riconoscimenti. E in cui spesso si farebbe volentieri a meno anche di quelli per poter avere per lo meno un lavoro.
Una realtà in cui un aspirante artista (in questo caso) attraverso i suoi studi si fa un’idea di cosa sia il “meglio”, per poi capire subito che quel “meglio” spesso è un’utopia irrealizzabile. Che, se esiste, per arrivarci sono necessari mezzi che si scontrano con la propria etica o i propri ideali. E che altrettante volte invece non esiste proprio. Nel primo caso sono d’esempio tutte le volte in cui Alessandro ha accettato di copiare, di avere una raccomandazione o di vincere un premio a tavolino grazie a “quello zio di destra di un’amico eletto in Basilicata”. Il secondo invece, come tutti i fan di Boris sanno, è incarnato dal caso “Medical Dimension” e da una frase storica di Renè:
“Perché a noi la qualità c’ha rotto il c***o! Un’altra televisione è impossibile! Viva la me**a!”
Nel primo episodio di Boris vediamo Alessandro entrare negli studi de Gli Occhi del Cuore guardando il set con gli occhi lucidi e il fare sognante. Alla fine della serie è solo uno dei tanti tecnici che fa il suo lavoro senza pensarci troppo per affaticarsi al di fuori con altre piccole e altrettanto insignificanti esperienze. In mezzo, il percorso che ha trasformato un giovane sognatore in un disilluso lavoratore sottopagato.
E a renderlo così non sono solo gli orari infiniti, gli assegni firmati e non riscossi, il minimo sindacale inesistente e l’affanno per un progetto che fa schifo.
Ma sono proprio quelle influenze provenienti da una società ormai stagnante, schiava di vecchi sistemi datati e sbagliati, di cui ne riconosce il marcio senza far nulla per cambiare. Una società così pigra e prigioniera dei suoi più contorti ingranaggi da preferire svilire dei sogni dei propri giovani piuttosto che aprirsi a un rinnovamento. Boris ha fatto di Alessandro il simbolo di questa nuova generazione, vittima della società e della vecchia classe. Ma anche vittima di se stesso e della propria staticità.
Perfetta rappresentazione di quella società carneficie è una delle frasi più emblematiche di Sergio. “Contratti? Ma che contratti? Passione ce vo’, passione!” Mentre un’altrettanto lucida, quanto ironica, incarnazione della staticità di una gran fetta dell’odierna gioventù è un dialogo tra Alessandro e Karin, nella seconda stagione. Ovvero uno di quei momenti in cui Karin ci regala una gran verità su cui riflettere, con la schiettezza che solo il suo particolare aplomb sa dare.
Quando Alessandro infatti si rifiuta di girare un video musicale per un artista amico di Karin adducendo scuse nebulose, Karin inquadra il personaggio andando subito al nocciolo della questione. Forse non è la reale mancanza di opportunità il problema di un giovane come Alessandro, ma l’incapacità di saperle cogliere. O meglio ancora, di crearsele di suo pugno bypassando chi avrebbe dovuto offrirgliele.
La verità è che dietro questa sorta di incapacità o svogliatezza c’è la disillusione. La ricercatezza delusa di chi sperava che il mondo in cui sognava di vivere e lavorare è ben diverso da come lo aveva immaginato.
È come un circolo vizioso. Quello in cui un aspirante regista spende i suoi anni di studio immaginandosi al fianco di grandi artisti per contribuire a grandi creazioni. E dopo aver sognato Kubrick, Lynch e Woody Allen approda nella realtà in cui Gli Occhi del Cuore fa 10 milioni di telespettatori mentre quasi nessuno vedrà la bellezza della Formica Rossa (qui avevamo parlato di questo e altri momenti geniali di Boris). E a cavallo della delusione portata da queste dinamiche galoppa in discesa verso una spirale di disillusione che, rifiuto dopo rifiuto di opportunità che sembrano solo altra spazzatura, porta nel tunnel in cui tutto ciò che si vede è nero.
E in quel tunnel tutto ciò che gli resta è l’immobilità, la stasi. Quella che non ti fa nemmeno prendere in mano la telecamera per andare pe’ fratte a girare quei corti che piacciono ai comunisti come te. Come suggerisce Karin dall’alto della sua saggezza popolare forse troppo poco considerata da chi, come Alessandro, tende a sentirsi parte di una nuova elitè senza privilegi. Quella dei moderni giovani, intellettuali che vanno a teatro per scoprire che un grande attore come Serpentieri ha bisogno de Gli Occhi del Cuore per pagare il mutuo, ma che uno come Martellone, con la sua comicità di bassa lega, ne ha abbastanza da finire in mezzo a scandali di sesso e cocaina.
E in quel tunnel fatto di stasi e sfiducia in qualsiasi cosa abbia le fattezze di un’opportunità che non convince troppo i nostri gusti sopraffini, ci siamo finiti in tanti.
Troppo demoralizzati da una disillusione ereditata da chi ci ha insegnato che “ormai funziona così” per fidarci del futuro. Troppo pigri da volerlo cambiare con tutti gli sforzi che implica. Dimenticati sul fondo di quel tunnel, paralizzati dalla grandezza di sogni in cui ormai non crediamo nemmeno più noi. Senza neanche sapere perché il solo osare ci spaventi così tanto.