Sono ormai passati ben 12 anni da quando Fox e FX hanno mandato in onda la prima stagione di Boris, la fuori serie italiana. Eppure le sue battute più famose sono ancora parte integrante del repertorio di series addicted e non. Boris non ha un seguito ampio come grandi serie straniere del calibro di Breaking Bad o Game of Thrones. Ma una cosa è certa: quel seguito è compatto e unito dall’idea comune che Boris sia un capolavoro indiscusso. Un prodotto innovativo e unico nel panorama televisivo nostrano. I fan adorano la serie, la riguardano instancabilmente e la citano compulsivamente a distanza ormai di anni. Perché? Perché ogni volta che Ferretti chiede che una scena venga fatta a c***o di cane perdiamo il respiro dalle risate? Certamente sì. Ma è solo una delle infinite ragioni del suo successo.
Boris non è semplicemente la storia di un bizzarro set televisivo. È una descrizione fine e capillare del Bel paese, della società italiana, e della nostra cultura.
È una metafora del “sistema Italia”, in cui Gli Occhi del Cuore e il suo set fanno da microcosmo narrativo. Mentre i protagonisti sono adattamenti delle più disparate versioni dell’italiano medio.
Definirla satira all’italiana risulterebbe perfino riduttivo. La serie ideata dal compianto Mattia Torre con i colleghi Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico sembra quasi un’opera di Neorealismo italiano nell’epoca del satellitare (ne avevamo parlato anche qui). Rivoluzionaria quindi, nel suo essere così stilisticamente nostalgica. Pretenziosa, ma a buon diritto. E il risultato l’ha premiata. Boris è riuscita con successo a suscitare tutte le emozioni che si proponeva, dall’ilarità all’amarezza. Ha saputo descrivere attraverso il proprio pretesto narrativo un intero sistema politico e culturale. E con un cast corale sapientemente scelto che ha saputo inquadrare tutti i livelli della società italiana, delineandoli con tutti i rappresentanti più ovvi.
Potremmo attribuire a questa sua capillarità narrativa la capacità di prestarsi ancora, a distanza di dieci anni, a un ampio citazionismo calzante in ogni contesto.
Ma anche all’impressionante vicinanza alla realtà della finzione messa in scena. Che, tenendo presente la sensazione quasi claustrofobica che la serie è in grado di suscitare, ci porta all’amarezza che caratterizza Boris. La storia di un sistema che non riesce a cambiare, in cui ognuno, volente o nolente, resta intrappolato. D’altronde si tratta esattamente della caratteristica che più di tutte avvicina Boris alle commedie neorealistiche. Una costruzione che ha le proprie fondamenta nella narrazione di sogni e speranze per il futuro che si scontrano con la disperazione e la frustrazione della vita di tutti i giorni. Un racconto sulla verità dell’essere “piccoli” e vivere ai piedi della piramide in un paese come l’Italia.
Un paese che non conosce meritocrazia, che si fonda su obsoleti sistemi di conoscenze e raccomandazioni. In cui il più fine intelletto viene bollato come “fichetto”. Che a questo preferisce il più semplice arrangiamento di cose fatte alla carlona, un tanto ar chilo. Un paese in cui il fatto che un’altra televisione non sia possibile è metafora di una realtà ben più dura: un’altra Italia forse non è possibile. “Un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”.
Quella stessa Italia in cui è spaventosamente facile ritrovare nella realtà di tutti i giorni esempi di persone e situazioni che Torre, Vendruscolo e Ciarrapico ci hanno raccontato con goliardia.
Una somiglianza che si prospetta timida attraverso l’impacciato arrivo sul set di Alessandro lo stagista, ma che diventa subito prepotente nel va*******o riservatogli da Sergio appena 20 secondi dopo. Un’attinenza alla realtà di tanti giovani tirocinanti e ormai datati lavoratori italiani che non smette mai di sorprenderci. Dalla filosofia di Biascica “tutto questo un giorno sarà tuo, ma prima… porta un caffè” agli straordinari d’aprile, simbolo di un’Italia che non ha ancora imparato a valorizzare il lavoro della manovalanza. E non solo.
Lo stagista muto, alias Lorenzo, è l’esempio perfetto dell’impopolarità del talento. La sua etica professionale, la devozione e l’innegabile bravura sono cose da niente a fronte della sua fantomatica antipatia. Una caratteristica interamente riscontrabile nello scarso spirito cameratesco, tipico di chi lavora dietro le quinte. Lo stesso vale per altre figure che rappresentano in Boris il talento e il relativo oblio in cui è puntualmente relegato. Come Orlando Serpentieri, maestro dell’arte drammatica, costretto a passare dal Macbeth a fare Gli Occhi del Cuore perchè tra le due cose ce n’è una che si chiama mutuo.
Figure che si scontrano con quelle che rappresentano invece la mediocrità, enfatizzata dalla serie come il segreto del successo.
In questo senso è fondamentale la figura di Duccio: Vate indiscusso di chi si nutre della sua stessa filosofia: “chiudersi a riccio”. Non leggere niente di niente per stare bene, fare tabula rasa. La versione borisiana del ben noto “beato chi non capisce nulla”. O non vuole capire nulla. Perchè Duccio in fin de conti si fa rappresentante di quella fascia di lavoratori in cui rientrano diverse categorie. Dai furbetti del cartellino ai semplici pigri troppo sicuri di un posto di lavoro statale. Di quelli che ti pagano bene per lavorare poco e male, proprio come piace a Duccio.
Boris è stata un’innovazione perchè non ha avuto paura di raccontare tutto ciò schiettamente. La verità di un sistema lavorativo fatto di straordinari non pagati, cavi non a norma e risultati mediocri. Tirocini gratuiti che fanno degli stagisti dei veri e propri schiavi: una parola che la serie infatti non ha mancato di utilizzare col dovuto sarcasmo. Perchè come dice Sergio “questo lavoro lo puoi fare in due modi: o con i sindacati sempre in mezzo o con la passione. Ce vo’ passione!” E ancora le raccomandazioni e l’ombra sempre presente della politica. La puntata divisa in due parti “Il sordomuto, il senatore e gli equilibri del paese” è illuminante in merito all’influenza della politica sulla televisione.
Boris ci ha fatto ridere e ci ha fatto riflettere. Le sue battute storiche hanno saputo racchiudere con efficacia molte di quelle verità raccontate altrove con l’aura di politically correct che in Italia piace tanto. Ecco perchè la citiamo compulsivamente.
Basta pensare alle frasi più celebri. La soluzione di Karin a ogni problema: “In Italia, se vuoi fa’ ‘na cosa, la devi da’!” L’ossessione di Stanis per tutto ciò che risulta a suo avviso “troppo italiano”, simbolo della secolare esterofilia dell’italiano medio che scade spesso nell’assurdo. La ben nota “A noi la qualità c’ha rotto er ca**o!” di Renè Ferretti. Frase semplice ma diretta nel definire ciò che spesso in Italia riesce a guadagnarsi il trionfo.
Ferretti è forse il personaggio più completo di Boris perchè rappresenta lo spettro più ampio dell’italiano medio. I sogni, le velleità artistiche, quello che poteva essere un talento ma nel contesto sbagliato, la disillusione, la rabbia e la lotta per la sopravvivenza. Uno spettro emotivo perfettamente espresso dal range di battute affidategli. Da “Viva la m***a!” alla Formica Rossa. Da “cagna maledetta” al monologo in cui riprende la “figlia di Mazinga” (sempre troppo poco annoverato tra i momenti migliori della serie).
Boris ha avuto il grande merito di deridere la tv italiana e l’italiano medio senza peli sulla lingua ma con l’intelligenza di chi di cultura ne ha da vendere.
Perchè non manca di riempire il proprio copione di parolacce e al tempo stesso delle più raffinate citazioni al cinema e alla letteratura. Un accostamento adorato da quelli che oggi verrebbero definiti radical chic. A ogni modo, qualunque sia la ragione per la quale continuate a citare Boris a distanza di dieci anni, non smettete di farlo neanche tra cinquanta. Non si sa mai, magari un giorno incontrate Gesù sulla Roma-L’Aquila e sarete pronti a dirgli:
“Sembra che l’unico fra noi due che sta facendo uno sforzo per evitare che IO ti meni sono sempre io. La stessa persona che però, prima o poi, ti menerà.”
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