Boris ci ha parlato di artisti, veri come Ferretti o tali solo nell’immagine che hanno di se stessi, come Stanis (che avevamo analizzato meglio qui). Ci ha parlato di archetipi della società italiana di ieri come Arianna, di altri che invece appartengono a quella contemporanea, come Alessandro. E di prototipi dell’italiano medio dietro cui si staglia un mondo da esplorare rifugiato nel personaggio di Biascica. E poi – come se tutto ciò non fosse abbastanza – ci ha regalato Duccio Patanè. Non un semplice operaio, non un semplice fotografo. Non un semplice uomo, potremmo dire.
Come definire quindi il direttore di fotografia de Gli Occhi del Cuore? Oltre che uno dei migliori personaggi di Boris.
Un genio incompreso nascosto dietro una maschera di incurabile apatia? La stessa che si dissolve al largo quando trenta chili di Saraghi cadono nella rete del suo peschereccio? Può essere. Ma non è così semplice. La verità è che Duccio è stato scritto per rappresentare qualcosa che trascendesse le difficoltà più pratiche della vita. In un modo non convenzionale, unico e fuori dagli schemi come solo Boris poteva fare.
Perché se personaggi come quelli citati prima e tanti altri lottano con nemici che quasi sempre hanno un nome, un volto o comunque una forma ben precisa, Duccio lotta con qualcosa di indefinito e invisibile e per questo ancora più indomabile: i suoi demoni interiori.
Gli sceneggiatori di Boris ce lo hanno presentato un pezzo alla volta e con fare sempre criptico. Decifrare Duccio pertanto non risulta semplicissimo e lo si può fare per lo più attraverso poche frasi.
Già nel primissimo episodio ci viene presentato come una sorta di mina vagante. Fuma sul set, spende il suo tempo su un divano del backstage ed è, manco a dirlo, quello che sparisce alla prima buona occasione. In quanto direttore della fotografia, e dunque capo del suo dipartimento, dovrebbe dare il buon esempio al resto della troupe, invece si fa riprendere costantemente da Arianna, vera guardiana della lavorazione.
Eppure nel bel mezzo della confusione del “primo giorno”, Duccio ha l’occasione di dire, in modo quasi del tutto random, una frase chiave da cui possiamo comprendere molto del suo comportamento all’interno del contesto fittizio creato da Boris. Quando chiede ad Alessandro se la fotografia de Gli Occhi del Cuore gli fosse piaciuta o meno, Duccio dice della sua stessa opera:
“La fotografia fa schifo. La fotografia non dev’essere migliore di quella della pubblicità, altrimenti la gente non la guarda e cambia canale. Hai capito? Hanno pensato a tutto.”
A questo punto se non fossimo in Boris potremmo tranquillamente inserire Duccio in una sottocategoria di complottisti del nuovo millennio che vedono la loro vita telecomandata dai “poteri forti”.
Ma trattandosi di un’opera maestra della televisione italiana di cui ci fidiamo quasi ciecamente, e anche perché pian piano impariamo a inquadrare Duccio per capirne le ragioni, finiamo col dare a questa frase il beneficio del dubbio. All’inizio. Per poi capire che non solo questa frase ha il suo senso nel contesto narrativo al centro della polemica sociale di Boris, ma ha anche un forte legame col percorso emotivo e lavorativo stesso del personaggio.
Perché questa frase, e le tante allusioni fatte da Ferretti in più di un’occasione al valore del suo storico collega, fanno pensare a un uomo che, proprio come Renè, sia stato vittima un po’ di se stesso e un po’ di un sistema marcio. Ma che molto più di questi ne abbia subito le conseguenze senza opporsi. Dunque se posto sotto una lente di ingrandimento Duccio potrebbe quasi suggerire l’idea di un artista con passioni e capacità che lo hanno portato da qualche parte, ma che a un certo punto della sua vita sono state deluse. Proprio come quelle di Ferretti. Schiacciate sotto il peso delle “necessità” di un’industria televisiva dagli anfratti oscuri.
Ma ciò che ha fatto la differenza rispetto a Renè, nel suo caso, è stata l’adattabilità. La decisione, inconscia o voluta, di mollare la presa e, a differenza del suo amico, di non combattere contro i mulini a vento. Ossia contro qualcosa che non sembra poter essere diversa da com’è. In questo caso la televisione italiana.
Se Renè ha continuato a crederci e, nonostante tutto, ha provato fino alla fine a essere l’artista che sognava di diventare da giovane, Duccio no. Duccio ha preferito difendersi e, come dice lui stesso, ha imparato a farlo. E lo ha fatto con tutto. Con il suo lavoro, col mondo della tv, con le persone, con la società. Lui si è chiuso a riccio. Ha smesso di leggere, dunque ha smesso di pensare. E così è stato meglio. Senza bisogno di parlare con qualcuno, di farsi vedere e cercare aiuto in modo più convenzionale. Ed è esattamente questo a suggerire l’idea di un uomo che è tutt’altro di ciò che sembra.
Certo, a vedere le sue cose un tanto ar kilo, la sua irriducibile noncuranza, la disattenzione e l’accidia è facile credere all’idea di un uomo a cui semplicemente non interessi nulla di nulla. Che è sereno e felice del suo jackpot: esser pagato bene per lavorare poco e male, proprio come il settore richiede. D’altronde è esattamente l’immagine che lui non smette mai di lasciar trasparire di sé.
Ma la verità è che ci vuole un’anima sopraffina e troppo più profonda per partorire quel concetto racchiuso nel “chiudersi a riccio”. Nell’ermetica espressione “ho imparato a difendermi”. E ogni buon fan ossessionato da Boris lo sa.
Che c’è un significato che va ben oltre una piatta apatia nella necessità di imparare a difendersi in questo mondo proprio smettendo di leggere. Smettendo di pensare e strapensare a chissà quali cose possano passare per la mente di un uomo come Duccio. Uno che, evidentemente proprio per difendersi, ha fatto tabula rasa vivendo la sua vita pescando e “pensando in camerino.”
Ci dev’essere tutta la volontà di lasciarsi scivolare il mondo addosso, con la serenità di quando consiglia ad Alessandro di star sereno e mandare Arianna aff*****o. C’è tutta la spinta persa ormai da tempo di cambiare le cose, di fare la differenza, di lavorare perché qualcosa che valga davvero la pena resti. E l’iperrealistica consapevolezza di quanto ormai il suo lavoro non sia altro che un superfluo orpello, buttato in un calderone pieno di troppi più elementi pronti a snaturarne l’essenza.
E dunque è così che nel presente abbiamo il risultato di tutto questo in un personaggio unico e irripetibile: Duccio Patanè.
Un uomo che si è rassegnato. Al sistema, a se stesso, al mondo. Che vive ognuna di queste tre cose godendosi i vantaggi come meglio può. Senza domande, senza bisogno di risposte. Senza sforzarsi. Privo di desideri che esulino le sue strettissime necessità giornaliere. Perché a quelle tanto ci pensa il fido Alfredo. Spoglio di qualsiasi forma di complessa speranza in qualcosa in cui evidentemente non crede più da anni.
E in questo stato, sotterrata l’ascia di guerra, Duccio non aspetta la terza stagione di Boris per aprire gli occhi più di quanto non abbia già fatto. Più di quanto non abbia già preso coscienza. Come accade a Ferretti, risvegliato dal torpore della speranza dopo l’ennesima mattonata in fronte, quella di Medical Dimension, che gli aveva fatto credere in un’altra televisione. Ed è proprio alla luce di una nuova comprensione della realtà che all’interno del contesto narrativo di Boris Ferretti riscopre Duccio, capendo finalmente e fino in fondo chi egli sia e perché.
Quando i muri sono ormai caduti.
Renè ha avuto bisogno di tre stagioni per capirlo e renderlo chiaro a tutti. Ma per Duccio, i muri erano caduti già da molto tempo, e la sua vita andava avanti così. In una nuvola di incertezza che al suo interno può avere una logica dalla consistenza nebulosa come la fase 2 che stiamo vivendo. Tra un infinito lasciarsi andare, stanco su un anonimo divano, e un coffee break da asporto.