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Boris: fa ridere perché è vero

Boris
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Tra le molte caratteristiche che fanno di Boris una tra le serie più intelligenti, divertenti e meglio realizzate di sempre, ce n’è una che spicca in modo evidente e che riesce ancora oggi a farci spalancare gli occhi dall’incredulità. Boris è una serie italiana.

A 13 anni dalla sua uscita, infatti, sembra ancora incredibile che questo vero e proprio capolavoro di meta-comicità sia stato concepito in Italia, la patria delle fiction ospedaliere smielate e delle famigliole allargate alla volemose bene.

E probabilmente ciò che continua a sorprenderci ogni volta che guardiamo Boris è la sua straordinaria capacità di parlare – e ridere, soprattutto – di quello stesso panorama seriale italiano all’interno del quale è riuscita a distinguersi come il proverbiale fiore nel deserto.

Prodotta in tre stagioni dal 2007 al 2010 da Wilder per Fox International Channels Italy, Boris è stata inizialmente trasmessa su Fox e Fx, per poi passare in chiaro su Cielo. Tra gli autori l’irriverente Luca Manzi, già sceneggiatore di Don Matteo (sì, avete letto bene!). Nel 2011 è stata trasposta al cinema con Boris – il film, e ultimamente le voci di una probabile quarta stagione si fanno sempre più insistenti (leggete qui per saperne di più).

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Per chi non l’avesse ancora guardata, Boris è il racconto in chiave satirica e caricaturale della scalcinata produzione de Gli occhi del cuore 2, una fiction a tema “ospedaliero” e “molto italiana”, per dirla con uno dei tormentoni della serie. La vicenda è tutta ambientata sul set e vede per protagonista Alessandro (intrepretato da Alessandro Tiberi), un giovane studente di regia con il sogno di sfondare nel mondo dello spettacolo. Assunto come stagista con un contratto ai limiti dello sfruttamento, negli studi de Gli occhi del cuore 2 troverà una realtà ben diversa da quella che aveva immaginato.

Gli addetti ai lavori sono infatti, perlopiù, una manica di disillusi e lavativi, e primo fra tutti René Ferretti, il regista talentuoso ma sprecato, interpretato da un immenso Francesco Pannofino.

A orientare la sua filosofia di vita quasi nichilista un rassegnato “portiamo a casa la giornata”, che si traduce nel limitarsi a dirigere anche “a cazzo di cane”, come è solito ripetere, tanto Gli occhi del cuore fa schifo e non c’è nulla che lui o altri possano fare per cambiare questo stato di cose. Le sue velleità artistiche si sono ormai infrante contro la dura realtà della scena televisiva italiana, e per arrivare a fine mese si è ridotto a prestare il suo talento in produzioni di pessimo livello.

E i suoi collaboratori non fanno eccezione: Duccio, il direttore della fotografia cocainomane, ha bruciato nella droga il suo talento e ora si limita a “smarmellare” le luci sul set; la segretaria Itala è svogliata, meschina, ubriacona, ladra e palesemente raccomandata, e il delegato di produzione Sergio è interessato solo a risparmiare quanti più soldi possibile e a discapito di qualsivoglia idea di qualità. La situazione sembra essere anche peggiore sul fronte “artistico”: gli attori protagonisti sono infatti Stanis La Rochelle, vanesio e megalomane quanto mediocre, e Corinna Negri, le cui capacità recitative sono talmente basse da essere nota sul set come “la cagna maledetta”. In questo quadro desolante l’unica persona che sembra interessata a far bene il proprio lavoro è Arianna Dell’Arti (un’ottima Caterina Guzzanti), assistente alla regia, per la quale Alessandro inizierà presto a nutrire dei sentimenti.

Risultato inevitabile dello scarso impegno (se non della cronica mancanza di talento) della troupe è che ciò che viene girato si presenta come un mattone indigesto e imbarazzante, un vero schiaffo all’intelligenza del pubblico. Anche “grazie” alle pessime trovate dei tre sceneggiatori, quasi compiaciuti della propria incompetenza, la trama risulta surreale, smielata, costellata da buchi e svolte incoerenti. La recitazione sopra le righe degli attori, limitata agli occhioni spalancati e alle vocine stridule nelle scene madri, non aiuta la credibilità della messa in scena, già penalizzata da una fotografia piatta e ovattata e da una regia cronicamente sciatta.

Così Gli occhi del cuore 2 finisce con l’incarnare (ed esasperare, ammettiamolo) i peggiori difetti della fiction all’italiana, quella che va in onda in prima serata e tiene incollati alla tv milioni di telespettatori con le sue trame banalotte e sempre uguali.

E persino la scelta dell’ospedale come ambientazione della serie è azzeccata: lungi dall’essere una rappresentazione realistica della vita in corsia, finisce col diventare luogo d’elezione per tresche amorose adolescenziali e pseudo intrighi più che telefonati.

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Al di là dell’oggettiva spassosità delle situazioni che si vengono a creare sul set, anche grazie a una lunga serie di personaggi secondari incredibilmente divertenti (primo fra tutti l’attore psicopatico Mariano Giusti, interpretato da un gigantesco Corrado Guzzanti), il vero pregio della serie è un altro, dal messaggio ben più sottile e nascosto.

Ad un primo livello di lettura Boris è una critica amara e spietata dell’ambiente televisivo italiano, e in questo senso non fa sconti proprio a nessuno. Chi ha talento o lo ha svenduto al primo offerente o lo ha bruciato nei vizi, mentre i molti (troppi) che ne sono privi riescono ad andare avanti a suon di raccomandazioni dell’amico di turno. I veri burattinai in questo grande circo, le eminenze grigie delle grandi produzioni, sono interessati esclusivamente a strappare alle reti concorrenti un punto in più di share. La qualità non è contemplata.

Un’analisi più profonda di questi temi ci permette di cogliere un discorso ben più complesso, perché le aspirazioni frustrate dei disillusi protagonisti di Boris sono lo specchio di un fenomeno molto più ampio e che non si limita al ristretto ambito della produzione televisiva, ma interessa l’Italia tutta.

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Quell’Italia i cui meccanismi malati ci hanno ormai assuefatti, tanto da farci ritenere normale che un giovane sia assunto come stagista a costo zero perché fa curriculum, o che sia scavalcato da un altro con minor talento, ma spinto da un appoggio politico più forte. Un paese in cui quella certa cultura dell’amico dell’amico sembra ormai essere introiettata a livello di coscienza collettiva, e in cui fa poca sensazione che una donna debba usare il proprio corpo come merce di scambio, perché tanto è così che funziona.

Ed è proprio in questo senso che Boris fa ridere perché è vero: dietro lo schermo della satira tagliente sulla mediocrità dei prodotti televisivi nostrani nasconde un grido di denuncia sullo stato sofferente della meritocrazia in Italia. Un paese pieno di individualità creative e di talenti che aspettano solo di essere valorizzati, ma che un sistema asfissiante e corrotto rischia di non far fiorire come meriterebbero.

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