Qualche giorno fa, parlando del più e del meno con un amico, è venuta fuori nel discorso una citazione estemporanea tratta da Boris. Non è la prima volta che Boris finisce per invadere le conversazioni di tutti i giorni riuscendo a incidere in maniera icastica sul senso del discorso. “Boris si presta a ogni contesto”, è stato il commento laconico ma puntuale del sopracitato amico.
Nelle pieghe di una Serie così “non-italiana”, facendo il verso a Stanis, si annida qualcosa di estremamente quotidiano.
Qualcosa capace di colpire nel vivo e scoprire i nervi di un’ipocrisia che percepiamo nella nostra routine, soprattutto lavorativa. Nonostante questo, Boris rimane un’opera raramente menzionata e scarsamente analizzata tanto dalla critica quanto dal pubblico.
L’iconicità dei dialoghi è resa esplicita soprattutto dagli aficionados più fedeli che non mancano di imperversare su social e forum dedicati. I risultati sono spesso perle di rara bellezza. Basti pensare alla pagina Facebook “Ferretti cammina con me”, capace di coniugare con ironia mordente l’espressività irresistibile di Boris con l’immaginifica forza rappresentativa di Twin Peaks.
Se però abbandoniamo questi lidi isolati di elitaria appartenenza (un po’ radical chic) e ci tuffiamo nelle piazze virtuali del vasto pubblico, Boris sparisce misteriosamente dalla scena. Una colpa, grave, che merita un’espiazione finale. Questo articolo si propone perciò il compito di restituire visibilità a un’opera tra le più importanti della serialità italiana troppo spesso trascurata e relegata a spazi di esclusivismo citazionale.
Alla base di un disinteresse, almeno apparente, per Boris è forse un fattore tutt’altro che trascurabile.
Nonostante la Serie si presenti come comedy, i suoi contenuti sono tutt’altro che leggeri. Boris parla alla nostra quotidianità. Ci cala nella vita di tutti i giorni, in quel mondo fatto di arrivismo, pressappochismo e spocchia in cui diavoli e ingenui si alternano sulla scena senza possibilità di scampo. Tutti i personaggi diventano vittime e complici di un apparato di potere radicato e irremovibile che decidono di accettare.
Anche Alessandro, l’idealista, incerto “protagonista” della Serie, attraverserà questo inferno lavorativo passando dall’ingenuità iniziale di chi crede nel merito e nell’impegno alla finale scelta della scorciatoia e del parentelismo. Lo farà affiancato da Lorenzo, lo “stagista-schiavo” anche lui sempre più inserito nei meccanismi perversi di un sistema di cose che non può essere forzato, solo assecondato.
Nessuno viene meno a questa logica, nessuno diventa credibile, granitico difensore di un’etica lavorativa irreprensibile. Alla fine, tutti cedono. O, come chiariremo più avanti, quasi tutti. In Boris non c’è mai un’ironia leggera, distensiva e rassicurante. L’aspetto comico si mescola con la cruda pesantezza dell’attualità. L’effetto generato sa di satira ma soprattutto di grottesco.
Ci spiazza, finendo per incupirci e privarci delle nostre speranze e convinzioni.
Non riusciamo ad accettare la visione, a farla nostra. A credere a un contesto lavorativo come quello rappresentato nella Serie. Dietro Boris c’è la rabbia e la stizza di chi ha vissuto e vive in quel mondo. Di chi ne conosce le ipocrisie e la retorica che si manifesta in ogni momento. Certo, tutto è esasperato, portato all’estremo secondo un gusto satirico che non ammette compromessi.
Le discrasie della società sono volutamente accentuate al fine di un ribaltamento comico altrimenti impossibile. In questo stravolgimento non c’è però falsità. Dietro la stereotipata rappresentazione di ogni personaggio si staglia la critica a un atteggiamento, a un modo di essere, a una mancanza morale.
In Duccio Patanè è rispecchiato il lassismo, prodotto della disillusione di un uomo, un tempo promettente direttore della fotografia. In lui, siciliano di Messina, si esprime a pieno la lenta, sorniona e logora mentalità nichilista del venerando popolo siculo. È la “colpa del fare”, splendidamente descritta da Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo: “Il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. […] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono”.
Duccio è il meccanismo di una macchina che esige solo prodotti atti al consumo. Che non accetta arte né profondità di sguardo.
Dall’altra parte però è anche boia, colpevole rappresentante di quello status quo che ha smesso di combattere nella rassegnata consapevolezza che ogni altra scelta sarebbe inutile se non controproducente.
Rispetto a René non crede più a una possibilità di cambiamento e neppure la vuole. Quando la parola d’ordine diventa ‘qualità’, Duccio nicchia, storce il naso. Sa di non essere più il direttore di una volta. Sa di non poter essere all’altezza. Di contro René non abbandona mai l’idea di una rivoluzione, di una regia che finalmente si sottragga alle logiche del vasto pubblico. Sarà perciò destinato al fallimento.
Perché anche lui, come Duccio, non è più il regista di un tempo. O meglio, non lo è mai stato. Quel suo potenziale è rimasto schiacciato dal compromesso morale di chi ha accettato di produrre fiction di bassa lega. E ora è troppo tardi per potersi sottrarre al processo di degradazione stilistica di cui è stato interprete e vittima per interi decenni. Questo risulterà evidente soprattutto nella terza stagione (e in Boris – il film) che segnerà il naufragare di qualunque velleità artistica del Ferretti.
Il regista de Gli Occhi del Cuore è un manovale, un operaio in grado di fornire una vasta mole di lavorazione nel giro di pochi giorni.
In questo risulta abilissimo e perfetto nel contesto di una fiction italiana che pretende gran quantità e scarsa qualità. René non ha scelta, ha perso molti anni prima la possibilità di cambiare direzione alla sua carriera e ora non può far altro che accettare il compromesso etico che gli permette di sopravvivere. Ad affiancarlo sono una pletora di personaggi dalle più svariate personalità.
Il loro realismo proviene dall’ispirazione che gli autori di Boris hanno tratto dalle persone realmente presenti sul set della Serie. Ne deriva un microcosmo sfaccettato e deliziosamente tratteggiato fatto di sempliciotti come Itala e Biascica; sbarazzini come Arianna; e spocchiosi come Corinna e Stanis.
Quest’ultimo in particolare rappresenta forse uno dei personaggi più riusciti e divertenti della Serie. Se Duccio e René paiono rendersi conto del degrado artistico nel quale a fatica si tengono a galla, Stanis, dal basso della sua incompetenza recitativa, sguazza perfettamente in quel contesto di faciloneria. La sua voglia di abbandonare una fiction “troppo italiana” è pura parvenza. La mediocrità unita all’alta considerazione di sé generano un effetto comico straordinariamente riuscito.
La retorica vuota ed esteriore di Stanis è la maschera di un uomo privo di profondità interiore.
Gli apprezzamenti per il teatro, per la concretezza di una recitazione essenziale e per la qualità mimica non sono altro che tentativi di nascondere il nulla che lo investe. Stanis rappresenta il “divo” nella sua accezione più negativa: un tronfio, narcisista, egocentrico cultore di se stesso. La parlantina che lo contraddistingue lo aiuta a destreggiarsi in ogni situazione.
Spesso però l’iperbolicità delle sue dichiarazioni conduce il discorso all’assurdo rendendolo vittima comica di se stesso. Come quando afferma: “Io considero Kubrick un incapace! Lo considero il classico esempio di instabilità artistica, abbia pazienza! È uno che affrontava un genere, falliva e passava a un altro genere”.
In questo miasma di personaggi senza arte né parte si distingue però anche una figura positiva, quasi angelica. Si tratta di Fabiana, attrice in erba ma dal potenziale enorme nonché figlia di René. Nel contesto di superficialità in cui si trova, Fabiana rischia di risultare vittima, agnello sacrificale di un mondo che non accetta il merito.
Eppure, è proprio allora che appare l’alternativa rappresentata da quel Sorrentino capace di cogliere immediatamente le qualità della ragazza selezionandola per un suo film.
Nel regista napoletano si incarna così l’immagine di una via diversa, la possibilità di un cambiamento. Il suo cinema (realmente di qualità) sembra gridare che sì, esiste ancora una profondità di sguardo irrimediabilmente preclusa però ai dannati dell’inferno della fiction italiana.
Boris ci parla con crudezza e onestà. Lo fa nel modo “più italiano” che conosciamo: facendo la satira di quei vizi e difetti che coinvolgono tutti noi. Lo fa creando figure nelle quali riviviamo la nostra quotidianità fatta di arrivismo, materialità e concretezza spicciola. Non c’è spazio per l’idealismo e per il merito. Solo per lo scambio clientelare e l’affermazione individuale. Una visione indispensabile da avere di fronte ma certo difficile da accettare. E forse proprio per questo ci dimentichiamo spesso di Boris.