Il mondo cambia colore, si trasforma, risorge. Con lui ci evolviamo anche noi e spesso ne subiamo i capricci e i tormenti. Le serie tv, in alcuni casi, sono un formidabile indicatore dei tempi che cambiano. Riescono a parlare di vita e realtà, talvolta più di quanto lo facciano i giornali o i quotidiani colmi di notizie. Boris ci ha aperto gli occhi per anni attraverso il suo modo di raccontare la realtà che si nasconde dietro alcune dinamiche sociali. Boris si elegge, da sola e per diritto, come capostipite di una famiglia che respira genialità.
La genialità sta in un prodotto nato quando ancora non esisteva Instagram (era il 2007) e tutti noi stavamo conoscendo la golden age delle serie tv. Erano gli anni di Lost e dei suoi innumerevoli successi. In Italia cominciavamo ad apprezzare sempre di più i prodotti stranieri, a scapito delle serie tv e fiction delle nostre reti generaliste. Confrontando i nostri prodotti a quelli delle altre nazioni si percepiva in maniera sempre più tangibile la differenza di qualità. Boris si inserisce in questo contesto e per un attimo ci ha fatto sognare: anche l’Italia poteva sfornare serie di livello, proprio andando a porre l’accento sulle storture della classica fiction nostrana.
Boris e il suo cast non sono altro che una metafora della società italiana
Attraverso il racconto della vita quotidiana sul set di una fiction di livello artistico infimo, Gli Occhi del Cuore, la serie stritola la società e la cultura italiana del tempo. Sul “banco degli imputati” vengono portati tutti quegli atteggiamenti mentali e non che hanno acuito il gap con la serialità americana: favoritismi, raccomandazioni lavorative, scarsa propensione all’eccellenza e servilismo. Tuttavia, sul set creato ad hoc dal regista René Ferretti, va in scena, attraverso un meccanismo metaletterario, anche un’altra storia.
È una storia che utilizza ironia e satira per denunciare il modo di lavorare sul set nella maggior parte dei prodotti televisivi italiani. È una storia che fa parodia per ammazzare la banalità con cui nascevano e morivano alcune storie presentate in televisione. L’archetipo segue alcuni principi inevitabili: la televisione italiana ha una regia fatta a ‘cazzo di cane’, una fotografia ‘smarmellata’ e ‘attori cani’, ovvero quegli attori privi di talento e credibilità recitativi, al punto tale da “abbaiare” al copione.
Cast e società dominati da una mediocrità che fa fatica a rallentare. Boris si emancipa da questa mediocrità e vince la sfida ammettendo che in alcuni casi le eccezioni esistono davvero. E Boris lo è. Nel modo in cui sono stati tratteggiati i personaggi e per quanto siano eccellenti i dialoghi all’interno della serie. Nel modo in cui fotografia e comparto tecnico hanno reso questa serie una delle opere più importanti della nostra televisione. Ma il mondo, come abbiamo detto, cambia colore e cambia interpreti. Se nel 2007 Boris era il punto di riferimento di questa satira socioculturale, oggi Lundini e i suoi show ne hanno preso in mano le redini in maniera decisiva.
Da Boris a Una Pezza di Lundini: la rivincita della televisione nostrana
Una pezza di Lundini rilegge l’attualità e prova a darne un senso. Come Boris anni prima, Lundini utilizza la televisione per smascherare i problemi che affliggono la società. Lo fa con una chiave inedita. Nel corso delle puntate sono invitati come ospiti personaggi scelti ad hoc per sensibilizzare il pubblico. È un nuovo modo di fare televisione che riesce nel suo intento e fa centro. In un contesto in cui si fa fatica a trovare contenuti inediti, Una Pezza si conferma l’outsider che fa dell’attualità l’assoluta protagonista. Come ricordato dallo stesso Lundini in un’intervista, il suo scopo è quello di ricreare un programma che fosse il più “televisivo” possibile, nel senso classico del termine.
Per rendere il programma più televisivo possibile, il presentatore si serve della bravissima Emanuela Fanelli. L’attrice è senza alcun dubbio uno dei pezzi forti dello show. È la stella che fa brillare di luce intensa un prodotto già di per sè divertente e dissacrante. Se il programma scompone in tanti frammenti il medium televisivo, la Fanelli, proprio perché attrice, mira a colpire più nello specifico la fiction italiana degli anni 20, ovvero 15 anni dopo Boris. Nella prima stagione è stata il deus ex machina di A piedi scarzi, una rilettura sarcastica dell’eccesso di romanità nel cinema italiano. Nella seconda ha prestato il suo volto a Simonetta, la truccatrice della Magnani. A quale scopo? Rendere esplicito il buonismo che caratterizza le fiction targate Rai.
L’ultimo grande personaggio portato in scena dalla Fanelli è L’Agenta Scelta Marilena Licozzi: una poliziotta che combatte da anni non solo la malavita, ma anche la disparità di genere. Il mondo è pronto per dare il giusto peso alle donne e al loro ruolo nel mondo? Nella forma sì. In sostanza no. Spesso anni e anni di propaganda non sono serviti per annullare il divario che ancora oggi esiste, in certe situazioni, tra uomini e donne.
Una Pezza di Lundini affronta temi importanti e di primo piano in salsa comica. Come in Boris, sappiamo tutti che, in fondo, l’ironia è solo l’altra faccia della realtà. Dietro tutti i meccanismi legati alla parodia, si nascondono dettagli tangibili e quanto mai attuali. È un tipo di televisione che brama il contatto con lo spettatore mostrando i difetti e le debolezze di un linguaggio seriale che, nonostante alcuni evidenti miglioramenti, fatica a conquistarsi credibilità. Ad esempio, anche il ricorso al cosiddetto “politicamente corretto” spesso risulta artefatto, privo del senso delle situazioni reali. Lundini lo sa e porta all’estremo la critica del linguaggio imperante dei media.
Se Lundini, quindi, è riuscito a mettere ’una pezza’ abbiamo davvero bisogno della nuova e imminente stagione di Boris?
Per certi versi sembra naturale rispondere “non necessariamente”. Le due opere sono state in grado di sgonfiare la presunzione generalista come mai prima d’ora, ma con il tempo è cambiato anche il modo di fare televisione. Un talk show – perché Una Pezza quello è, anche se in chiave ironica – riesce a porre l’attenzione su temi come quelli che abbiamo elencato, servendosi di moltissimi e diversi ospiti che rappresentano personalità e idee diverse.
Attraverso la presenza trasversale di figure realmente protagoniste del dibattito politico, artisti più o meno noti, che si prestano ai deliri esilaranti di Lundini, il programma si prende gioco di alcuni luoghi comuni che attanagliano i nostri giorni. Lundini, inoltre, ha saputo usare la forza dei social avvicinandosi al nostro contesto generazionale. La ripetitività di alcune gag e la viralità dei suoi sketch, postati anche sui suoi canali social, ha contribuito a creare una fanbase davvero numerosa e alimentando il successo di Una Pezza.
D’altro canto Boris aveva – e continua ad avere – tutti i pregi di una serie tv. Una trama ben strutturata, ad esempio. Attraverso una narrazione lineare, Boris diverte e fa riflettere. Ma soprattutto Boris ha quella capacità innata di farci entrare su un set televisivo “all’italiana”, con un insieme di termini tecnici e gergali che sono poi entrati nell’immaginario collettivo. E, poiché il revival è in arrivo, sarà molto interessante capire come riadatteranno quelle atmosfere 15 anni dopo e quali temi socioculturali affronteranno. Il comparto tecnico dell’opera, poi, è stilisticamente incredibile e meravigliosamente credibile. Luci ed ombre che si alternano senza tregua e ci introducono nel cast più eccentrico di sempre, per quel che concerne una serie italiana.
Insomma, Una Pezza di Lundini ci ha fatto dimenticare di Boris per un po’, ma non può sostituirla in tutti i suoi aspetti. Sono due opere che potrebbero camminare su piani complementari. C’è bisogno dell’una e dell’altra per riscoprire la forza dell’autocritica. Se Boris ha aperto la via, Una Pezza ci cammina a testa alta senza rivali.