Rispetto a Boris ci siamo un sacco divertiti con un esercizio inusuale: analizzare con serietà alcuni dei personaggi principali della serie. A prima vista potrebbe sembrare un’impresa quasi anacronistica, considerando il carattere fortemente sarcastico e metaforico della serie. Probabilmente il caro Mattia Torre ci avrebbe riso su dicendo che chi ama Boris sa quanto intrinseco sia il suo carattere polemico. E quanto importante sia cogliere con l’ironia ricercata proprio da Torre e dai suoi colleghi i messaggi lanciati da questa straordinaria opera.
Eppure oggi vogliamo onorare proprio lui, l’indimenticato Mattia Torre, e i suoi colleghi Vendruscolo e Ciarrapico. Autori della perla della tv nostrana: Boris.
E lo vogliamo fare analizzando con la stessa serietà utilizzata per Ferretti, Duccio, Biascica, Stanis, Alessandro e Arianna, un nucleo di tre personaggi secondari ma non meno geniali: i tre sceneggiatori de Gli Occhi del Cuore. Controparti fittizie e contrarie ai tre sceneggiatori di Boris. Che a differenza della fiction raccontata, è tutt’altro che ‘monnezza. Proprio loro tre infatti ci tengono a sottolineare come ciò che viene scritto dalle loro controparti sia esattamente questo: m***a, per dirla alla Ferretti.
Ma se già non bastasse questo si può pensare a tutte le volte in cui gli sceneggiatori abbiano rappresentato il meglio e il peggio dell’odierna televisione italiana e della loro stessa posizione. È singolare infatti notare come in Boris i tre sceneggiatori non abbiano nome, ma ci si riferisca a loro sempre e solo come come agli “sceneggiatori”. Quasi in polemica con la tendenza generale a lasciare sempre da parte il ruolo da loro giocato nella creazione di una fiction per dare più spazio ad attori e registi.
Ma se questo dettaglio di Boris spezza una piccola lancia a loro favore di certo non lo fa tutto il resto delle loro azioni. In tal senso invece gli sceneggiatori della serie (quelli veri) sembrano essere in polemica con la loro categoria e con la sua tendenza a svilire il proprio mestiere.
La scrittura, di qualunque natura essa sia, è un’arte sopraffina. Un’arte che si pone la nobile finalità di raccontare una storia. Che sia al fine di puro e semplice intrattenimento, di informazione o descrizione. E per farlo serve uno spirito d’osservazione in grado di carpire dalle più vistose alle più sottili caratteristiche di una realtà. La stessa che, assieme alla fantasia, dà inizio alla magia, laddove per magia s’intende proprio la creazione di quella storia.
E gli sceneggiatori de Gli Occhi del Cuore – nonostante tutto – hanno dimostrato in modo anche sorprendente la loro abilità in tal senso. La capacità di carpire le caratteristiche della realtà italiana, di delinearla con un pugno di concetti e da qui creare una storia fruibile attraverso immagini e parole. Ce ne danno prova alla fine della terza stagione, quando Boris ci regala in poche frasi un vero e proprio trattato socio-politico nelle parole di uno dei tre sceneggiatori:
“Io parlo della locura, Renè, la locura. La pazzia, che cazzo Renè, la cerveza, la tradizione o merda, come la chiami tu, ma con una bella spruzzata di pazzia, il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola, Platinette. Perché Platinette, hai capito, ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte… Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera. Vero o no?
Ci fa sentire la coscienza a posto Platinette, questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte. Questo che devi fare tu: “Occhi del cuore” sì, ma con le sue pappardelle, con le sue tirate contro la droga, contro l’aborto ma con una strana, colorata, luccicante frociaggine. Smaliziata e allegra come una cazzo di lambada. La locura Renè, è la cazzo di locura. Se l’acchiappi hai vinto.”
Nelle parole del bravissimo Valerio Aprea ritroviamo la fotografia, “surrealmente” perfetta, di un’Italia che è così tanto nella finzione quanto (purtroppo) nella realtà. E di una televisione che risulta essere altrettanto.
A testimonianza dell’innegabile capacità dei tre di capire perfettamente la differenza tra qualità e porcheria, tra cosa sarebbe giusto raccontare e cosa vuole il popolo. Una caratteristica dei tre che emerge con forza anche maggiore in Boris – il Film, in cui la loro proverbiale cialtroneria emerge con dettagli che descrivono anche meglio la tipologia di “professionisti” sulla quale gli sceneggiatori di Boris basano la loro critica.
Eppure nonostante imprevedibili qualità descrittive, gli sceneggiatori de Gli Occhi del Cuore sembrano dimenticarsi per tre intere stagioni di quella sensibilità necessaria a raccontare una storia con l’onestà intellettuale di cui necessita. E lo fanno con spocchia e consapevolezza, monetizzando ogni briciola del loro lavoro e del loro tempo con cinismo. Come se tutto ciò che esce dalle loro penne dovesse rispondere molto più al dio denaro che al rispetto dell’arte.
Ma l’avarizia, l’attaccamento ai soldi e la totale mancanza di sensibilità artistica, sono solo alcune delle qualità di contorno che delineano i personaggi raccontati nelle loro vesti. Perché è la più volte sottolineata cialtroneria la vera caratteristica che li definisce. E non in modo casuale.
Parte della polemica di Boris sulla deriva della televisione italiana della nostra epoca, punta a far luce proprio sulla mancanza di contenuti validi e la superficialità degli stessi come uno dei problemi principali della tv.
Sappiamo bene che facendo questo Boris punta il dito anche verso un pubblico che cerca e premia esattamente questo genere di contenuti, ma non solo. È un po’ come la storia dell’uovo e della gallina, in cui non si sa chi venga prima. In questo caso non si sa se a venire prima sia stato un pubblico troppo pigro per appassionarsi a contenuti di spessore, o una categoria di autori troppo pigri per crearne. Boris non risparmia nessuna delle due categorie. E infatti se prende di mira la prima facendo balzare Gli Occhi del Cuore al primo posto delle fiction più viste in Italia, colpisce la seconda proprio con i tre sceneggiatori cialtroni.
Persone talmente avide e disinteressate a creare per il pubblico qualcosa di “bello” – nel senso più filosofico del termine – da passare intere giornate di nullafacenza. Tra una chitarra che suona e una partita a scacchi. Dinamiche che vanno ben oltre il dubbio legittimo di un possibile blocco dello scrittore. Una patologia che nel caso dei tre sceneggiatori fittizi sembra davvero un insulto alla categoria degli scrittori, se pensiamo a come la loro proverbiale pigrizia si traduca addirittura nell’impostazione del tasto F4 per inserire l’abusatissima parola “basito/a”.
È dunque una parabola fatta di polemica e autocritica verso se stessi e verso tutta la categoria, quella raccontata attraverso gli sceneggiatori de Gli Occhi del Cuore.
Fatta di un intrinseco rimando al rispetto che si dovrebbe avere verso la scrittura in quanto arte. Un appello alla categoria a non svilire un mestiere già troppo spesso soggetto a critiche e battute da parte di chi nella scrittura non ci ha mai visto un lavoro. O magari ne vede uno pagato troppo. Come se la creatività non fosse una dote meritevole di riconoscimenti quanto altre inclinazioni.
E molto più simpaticamente, è un appello a non svilire le storie che vengono raccontate. A non farlo con didascalie che rimandano a dialoghi ed espressioni ripetitive e noiose o con stagioni di troppo che, molto spesso, oltre la terza stagione finiscono per diventare un vero crimine contro lo storytelling.
È insomma un simpatico appello a riscoprire il valore della creazione di una storia, lasciandosi un po’ alle spalle questa sceneggiatura democratica che ha dimostrato ampiamente tutti i suoi limiti. Perché insomma, diciamolo: la sceneggiatura democratica ha rotto il c***o. Viva la qualità!