Oggigiorno l’offerta televisiva in Italia viene spesso considerata un’accozzaglia di spazzatura di cui potremmo per lo più fare a meno. Eppure nei tanto vituperati anni bui della nostra produzione seriale – in cui prodotti di qualità sono cosa rara e via di clichè – una luce in fondo al tunnel è apparsa. Una luce chiamata Boris. La fuori serie italiana fa la sua comparsa su Fox nel 2007 per poi giungere in chiaro su Cielo fino al 2010. Boris ci porta sul set della fiction fittizia Gli Occhi del Cuore per mostrarci la realtà dietro le quinte del mondo televisivo. Ma Boris è molto, molto di più. È un’opera satirica di altissimo livello che prende di mira le sovrastrutture sociali italiane.
Per tre stagioni ci offre una fotografia del nostro paese toccando temi che vanno dalla politica al lavoro, dalla società in cui viviamo alla mentalità che ci appartiene. Ed è proprio strappandoci grasse risate e amare riflessioni che Boris ci fa sentire tanto, troppo “italiani”.
Le storie viste in Boris vengono raccontate attraverso l’occhio di uno stagista sfruttato ai limiti della legalità. Tuttavia la serie riesce a spiegare, attraverso le dinamiche di un set televisivo, cosa significhi essere un “determinato qualcuno” in Italia. Cosa significhi avere un sogno da realizzare, delle ambizioni artistiche – in questo caso lavorare in tv – in un paese in cui le protezioni politiche contano più del talento.
Il finale di Boris è una triste conferma di quanto le dinamiche viste nel corso delle stagioni siano purtroppo delle realtà con cui doversi scontrare.
La falsità e l’ipocrisia dei delegati di rete, asserviti al potere, incapaci di fare la differenza. Gli aspetti quasi surreali di molti ambienti di lavoro italiani per chi si trova ai piedi della piramide. Gli straordinari d’aprile, le lotte con la CGIL, i cavi non a norma, lo stagista schiavo su cui sfogare la propria frustrazione, gli assegni firmati ma non riscossi. È un mondo difficile quello raccontato dagli Occhi di Boris, in cui tuttavia puoi sopravvivere ma, come spiega Sergio, “ce vo’ passione!”
È la passione che ha spinto Renè Ferretti – regista della fiction Gli Occhi del Cuore – a credere che un’altra televisione fosse possibile. Ed è proprio questa passione che sul finale si rivelerà essere – forse – il suo peggior nemico. La passione è fumo negli occhi nel mondo di Boris, tristemente simile alla realtà in cui viviamo.
Nella terza stagione – infatti – vediamo un Ferretti sopravvissuto a stento ai tentativi della rete di silurarlo. Il regista di Fiano Romano si rimette in gioco con Medical Dimension, un prodotto che si propone di essere del tutto diverso dai precedenti. O almeno così gli viene detto. Ferretti viene convinto che quando impegno e passione incontrano la qualità, il risultato può essere diverso da quello che lui chiama “m***a”. Il tempo di Caprera e de Gli Occhi del Cuore è finito, Medical Dimension è la svolta! Renè inizia così a ricercare la “qualità” com’è giusto che sia. Cambio di mentalità sul set, e non su ipocrita richiesta di Lopez, ma per rendere possibile una nuova televisione.
Peccato che la qualità non sia esattamente ciò che la gente apprezza di più quando è seduta davanti lo schermo…
Ferretti, dopo averci creduto con tutto se stesso, lo capisce tra un Cosmopolitan corretto con Lexotan e l’altro. Dalle criptiche affermazioni di quegli “irraggiungibili Dr. Cane” che non si vedono mai ma prendono decisioni per tutti. Capisce che, una volta stabilito che sei fuori, è solo questione di tempo. Non importa quanta passione tu ci metta. Non conta la qualità del prodotto. Ferretti affronta la delusione, la rabbia e la tristezza. Poi va avanti. Come? Colmo di disillusione, si arrende alla legge dei ruoli prestabiliti: se hai fatto m***a, non ti è concesso uscire dalla stalla così facilmente. Puoi cercare di restare a galla, ma devi imparare le regole del gioco e metterle in pratica.
E non si tratta più solo delle giuste protezioni politiche. Si tratta di furbizia e presa di coscienza: di capire cosa voglia lo spettatore – quindi i piani alti – e barattare con questo le proprie velleità artistiche. Perché la gente, come dice il Dottor Cane, ha bisogno della “tradizione”. Sì amalgamata a frizzanti novità, ma senza staccarsi dalle indissolubili radici della stessa.
Qual è allora la chiave di volta? La disillusione, l’accettazione della realtà. La rabbiosa calma che ti fa urlare ai quattro venti che “la qualità c’ha rotto er c***o!” E quindi “Viva la M***a!” che per lo meno ci fa andare avanti! Ferretti riapre così una vecchia porta: Occhi del Cuore 3. La terza stagione di una fiction trash “tipica” del palinsesto televisivo italiano prende vita in un disperato tentativo del regista di restare a galla. Di nuovo. Ma stavolta giocando alle regole dei piani alti: con le menzogne e i sotterfugi. Usando la forza, come gli suggerì tempo prima il vecchio Tarzanetto. Implorando e piangendo se necessario.
Quello di Boris non è un mondo per orgogliosi: qui la dignità non raccatta nemmeno l’ultimo premio.
E allora dai, dai, dai! Si tiene su teatro e squadra per un’ultima volta, finchè i discorsi incoraggianti non si scontrano con i singoli bisogni. E anche questa è una realtà da accettare. Come quella degli elettricisti, che oltre l’orario di chiusura del set devono anche smontare tutto. La realtà che emerge dalle parole di Itala:
“Renè io ho già detto a tutti che t’ho mannato a f*****o. È ‘na polizza per il futuro”.
Perché in questo mondo non si lavora per la gloria, e nessuno vuole restare col capitano mentre la nave affonda. L’ultimo struggente sforzo di Ferretti è un percorso minato che punta a un solo obiettivo (non certo altruistico): dare allo spettatore italiano quello che cerca. L’illogico ritorno dei personaggi più amati. I dialoghi impregnati di stucchevole “politically correct”. Il protagonista buono che non inciampa nella droga, non inneggia all’eutanasia, non fa cose sbagliate. È insomma un essere umano superiore. Il filo conduttore che collega lo spettatore all’idea di ciò che è tradizionalmente riconosciuto come “giusto”. Si danno al popolo le bocce, per dare un pizzico di brio alle immancabili e necessarie storie d’amore.
E per rendere tutto “originale” e “diverso” agli occhi di una rete che blatera di “futuro” e considera Occhi del Cuore il “passato”, diamo loro la LOCURA. Che non è il futuro prospettato da Medical Dimension, la fuffa in cui Renè è già cascato una volta. È la “pazzia, la cerveza. La tradizione (la m***a, insomma), ma con una bella spruzzata di pazzia”.
“Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola: PLATINETTE! Perché Platinette ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte. Sono cattolico ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera! È vero o no? Ci fa sentire la coscienza a posto Platinette. Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la morte. È questo che devi fare tu! Occhi del Cuore sì, con le sue pappardelle, le sue tirate contro la droga, contro l’aborto, ma con una strana, colorata, luccicante frociaggine. Smaliziata e allegra come una cazzo di Lambada! È la Locura, Renè! È la cazzo di Locura! Se l’acchiappi, hai vinto!”
Un minuto e mezzo di feroce verità su quella che non è semplicemente la sceneggiatura di una fiction per famiglie, ma è la realtà dell’Italia di oggi: il vero set raccontato da Boris. Un paese disilluso che – proprio come la rete – blatera di futuro senza sapere esattamente di che genere. Un popolo conservatore che brama verbalmente il progresso, ma nei fatti resta attaccato alla tradizione. La protegge strenuamente credendo così di difendere la propria identità e le proprie radici. È un popolo che non vuole dover pensare ad argomenti controversi, non vuole riflettere, o accettare le diversità. Non vuole farlo nella vita di tutti i giorni, figuriamoci la sera davanti alla tv. Ecco perché la locura vince. Come dimostra il successo strabiliante ottenuto nel 2010 da Tutti Pazzi Per Amore. A questa fiction italiana fa – infatti – riferimento implicito il suddetto monologo sulla locura dello sceneggiatore di Occhi del Cuore, abbinato poi alla meravigliosa scena musical.
La “m***a tinta di paillettes” riflette il pensiero comune dell’italiano medio, che vuole ritrovare nelle proposte televisive un allineamento a quel pensiero tradizionalistico che gli appartiene. Ma con un pizzico di simpatia per rallegrarsi dopo una giornata di lavoro.
Boris racconta un meccanismo, quello televisivo, che non vuole cambiare. Ma in realtà parla dell’Italia, e lo fa su più livelli. E questa Italia raccontata da Boris, proprio come la sua televisione, non cambia perché NON VUOLE farlo. È un’Italia che ti fa credere in qualcosa solo per tagliarti fuori più dolcemente. È un’Italia che non dà spazio ai sogni, al talento. Alla passione sì, ma solo per evitare i sindacati. È un paese che non crede alle attitudini personali, non investe sul potenziale di ognuno. Segue il trend del momento e secondo le direttive di chi è arrivato in alto. È un’Italia in cui “siamo amici finchè non devo occuparmi del mio orticello”. Finchè va bene esserlo anche in pubblico, altrimenti “ti voglio bene in privato, ma salto sul carro del vincitore”.
È un’Italia in cui non importa cosa ci piaccia fare, tanto lo si realizza a stento, allora basta che si lavori. Tanto finché c’è uno zio FoFò che ci mette una buona parola per “un posto” c’è speranza.
È un paese in cui dietro un favore c’è sempre un tornaconto personale, che siano i proventi della SIAE per una ridicola scena musicata o altro. In cui i servitori del potere eseguono ordini in modo funzionale, senza farsi troppe domande. Promettono, sorridono, augurano ‘buona giornata’ e subito dopo archiviano qualunque ‘fuori-schema’ cambiando espressione. Senza domandarsi se a quell’outsider non valesse la pena dare un’opportunità. Senza pensare se valesse la pena chiedere, proporre. È un’Italia che non è neanche curiosa di aprire una busta perchè ha paura di prendere iniziative. È tuttavia un paese in cui il fattore C ha il suo peso: se il frutto dei tuoi sforzi finisce per caso nelle mani giuste, forse una speranza potresti averla. E non importa se hai prodotto m***a. Se hai capito cosa vuole la gente, se hai “acchiappato la locura” hai già vinto.