Hector Salamanca non ha mai avuto voce. Anche prima che Nacho Varga propiziasse il malore che l’ha condannato al campanellino a vita, era relegato al silenzio. Spesso si tratta di un silenzio autoindotto, tipo quando preferisce lasciar gestire gli affari ai suoi sottoposti. Oppure quando, a gesti, impartisce la sua particolare educazione ai gemelli – e chi non ha mai spiegato l’amore fraterno ai bambini rischiando di affogarli in un secchio di acqua gelida. Ma questo è un tipo di silenzio che a Hector Salamanca piace molto, poiché intriso di cinico pragmatismo.
Da luogotenente del Cartello, da uomo “del fare”, non ama molto riflettere. Meglio potare i rami secchi alla radice. Meglio un colpo di pistola che la sottile arte della diplomazia. Anche perché questa qualità non gli appartiene. Quelle poche volte che apre bocca suona straniante, come un essere umano che si cimenta in qualcosa di totalmente innaturale, producendo un effetto respingente. Per questo la sua comunicazione orale non può che essere il prologo a un’escalation di violenza. Vuoi per impartire una morale depravata ai suoi nipoti, vuoi per trattare con un uomo orgoglioso come Mike, vuoi per corrompere un onesto lavoratore come il padre di Nacho. Fateci caso: Hector apre bocca e il mondo diventa un posto finanche peggiore.
Oltretutto il suo silenzio ha l’inquietante superpotere di apparire contagioso, come se fosse una malattia a tutti gli effetti. Ricordate forse il suono della voce dei gemelli Salamanca? Marco e Leonel sono forse le persone più affezionate allo zio, senza dubbio quelli che ne hanno colto appieno l’eredità da “braccio armato” del Cartello. Non a caso è quasi una disciplina militaresca quella di cui si appropriano. Anzi, come se avessero fatto un voto religioso, la parola diviene qualcosa di superfluo rispetto alla missione che devono compiere.
Eppure c’è un contesto in cui gli sarebbe piaciuto molto avere voce in capitolo e invece è stato messo a tacere
Forse il suo silenzio è semplice eccesso di superbia. Forse ritiene di dover sprecare la propria voce solo se seduto al tavolo con i “grandi”. Forse, dal suo punto di vista, era anche legittimo che Don Eladio mostrasse più rispetto per la sua dedizione al Cartello. Fatto sta che Hector non diventi mai un leader di spicco, ma resti confinato nella manovalanza. Un soldato, non un comandante, per tornare alla metafora bellica. Un’onta insostenibile, oltretutto, venendo totalmente surclassato dalla capacità imprenditoriale, dall’eleganza e dalla fredda furia vendicatrice di Gustavo Fring.
Anche quest’ultimo non è un tipo molto loquace, ma compensa con la presenza e la credibilità laddove la rozzezza è presente nel sangue dei Salamanca in quantità superiore ai globuli bianchi. Anche nel modo di approcciare alla vendetta i due si collocano agli antipodi. Gus ha improntato la sua vita sulla distruzione, dall’interno, del Cartello di cui facevano parte anche i Salamanca, con la stessa pazienza con la quale una mamma accudisce il proprio bambino, proteggendolo dalle avversità e permettendogli di crescere sano e forte.
C’è stato un solo momento in cui i loro mondi sono entrati in qualche modo in contatto, in cui è parso che Gustavo capisse Hector e viceversa. Nel flashback di Breaking Bad in cui viene mostrato l’omicidio di Max, il partner di Fring, Hector Salamanca resta in disparte e, manco a dirlo, in silenzio. L’inquadratura cambia, lui si avvicina, poi la ripresa indugia su un primo piano del giovane Gus e, con un artifizio registico molto efficace, comprendiamo dello sparo dagli schizzi di sangue che raggiungono il volto del “re del pollo”. Con un’altra intuizione geniale, l’urlo di rabbia di Fring viene soffocato: lo viviamo e lo ammiriamo, ma non lo ascoltiamo. Una condizione che Hector Salamanca conosce bene e imparerà a conoscere sempre meglio nel corso della sua vita.
D’un tratto Hector Salamanca non ha più voce per davvero, ma comincia a diventare rumoroso
‘Ding Ding Ding’. È questo il suono che impariamo ad associare al personaggio. Si tratta senza dubbio di un rumore molesto, acuito dall’utilizzo compulsivo e scriteriato che comincia a farne Hector. D’altra parte è paradossale la sua situazione. Adesso avrebbe tante cose da dire, ma può raccontarle soltanto a se stesso. Diventa testimone di gran parte degli eventi narrati in Breaking Bad, ma l’assenza della parola gli impedisce di incidere, di avere potere. Come nel più crudele dei contrappassi, è stato zitto tutta la sua vita e ora che vorrebbe parlare non può.
‘Ding Ding Ding’. Continua imperterrito, Hector. In maniera a volte anche infantile, come un bimbo che piange per attirare su di sé le attenzioni degli altri. Incapace di parlare, ma non per questo incapace di esprimere emozioni. E in questo non può non essere sottolineata la straordinaria prova attoriale di Mark Margolis che, tra Breaking Bad e Better Call Saul, ci regala un personaggio sfaccettato, violento ma talvolta comico e perfetto archetipo da odiare. Non deve essere stato facile interpretare un gangster disabile, mettendo a nudo la propria condizione senza far perdere di vista la sua natura. Non deve essere stato facile esprimere una rabbia così penetrante muovendo soltanto gli occhi e in parte la bocca.
‘Ding Ding Ding’. Hector ha capito che se suona quel campanello qualcuno risponde. Talvolta c’è persino qualcuno che lo ascolta, mettendosi con pazienza a interpretare con l’abecedario il significato dei suoi suoni. E se lo ascolta, gli crede. E se lo ascolta e gli crede allora può essere manipolato. Hector ha capito, in sostanza, come esercitare potere. Può applicarlo soltanto attraverso la sua morte, a testimonianza di come egli non sia un uomo di potere o che comunque questo appartenga a chi non ha più nulla da perdere. Hector Salamanca è l’uno e l’altro e, anche se non con la pazienza di un genitore, ha cucinato la sua contro vendetta ai danni di Fring. Come quando ha ucciso Max non è servito utilizzare alcuna parola. ‘Ding Ding Ding Ding Ding Ding Ding Ding Ding Ding Ding Ding’. Sipario.