My star, my perfect silence
Se George Martin avesse davvero scritto Breaking Bad, probabilmente non si sarebbe innamorato solo di Walt: per lui, infatti, anche i personaggi deboli rappresentano un’enorme attrattiva, e anzi si può dire che consideri la loro fragilità una sfida a spingerli a tirare fuori la parte più grintosa del proprio carattere (basti pensare allo spinoso cammino che ha preparato per Sansa, al solo scopo di renderla più forte e saggia); perciò credo che se in Heisenberg riconoscerebbe una specie di alter ego di se stesso, in Jesse saprebbe trovare altrettanti spunti interessanti.
Nel finale della terza stagione, il ragazzo si vede costretto a scegliere tra assassinare a sangue freddo l’innocente Gale Boetticher e lasciare che Walt venga ammazzato dagli uomini di Fring. Si tratta di una decisione difficile per il giovane, perché fino ad allora non ha mai ucciso nessuno e accettare di sottomettersi alla “legge della criminalità“, secondo cui bisogna fare ciò che è conveniente senza cadere in inutili esitazioni, significherebbe oltrepassare in modo definitivo un confine importante (che per lui potrebbe essere quello tra un’infanzia prolungata e l’età adulta).
Alla fine sceglie di salvare Walt, e lo vediamo in lacrime di fronte alla porta di Boetticher, ripreso in un’inquadratura tra le più belle di tutto il telefilm.
Beh, ritengo che Martin avrebbe adorato una situazione simile, però suppongo anche che avrebbe voluto esasperare la sofferenza di Jesse ponendogli davanti una vittima non solo indifesa, ma pure implorante: così la fermezza dell’omicida sarebbe stata messa alla prova per un’ultima volta, la sua mano avrebbe tremato un po’ di più, e la ferita nel suo cuore sarebbe stata più profonda.
Tanto per cominciare, Jesse non avrebbe avuto a disposizione un’arma in grado di uccidere in fretta e in modo pulito: no, sarebbe stato costretto dalle circostanze a toccare Gale per eliminarlo, a sentirsi il suo sangue tra le dita; e ovviamente il povero chimico avrebbe avuto tutto il tempo di pregare e supplicare il carnefice, ma questi non avrebbe ceduto, sapendo quale fosse la posta in gioco per Walt.
Personalmente credo che la sequenza che abbiamo visto sullo schermo sia già perfetta, però se l’avessimo letta in un libro ci avrebbe in effetti emozionato percepire l’angoscia di Jesse come fosse stata la nostra…
Il giovane biondo alzò il coltello, deciso a mozzare con un taglio netto la gola dell’altro; singhiozzava terribilmente, si sforzava invano di fissare l’attenzione su un particolare dello sfondo, della strana casa di Gale, per non vedere la faccia terrorizzata del chimico. Ma non potè, perché se voleva sul serio ammazzarlo doveva guardare dove colpiva.
Tentò, e fu allora che Gale scosse via l’orrore mortale che provava e riuscì con un movimento fortunato a bloccare la lama del coltello: alcune gocce di sangue la bagnarono, nel punto in cui le dita del chimico si erano frapposte tra lei e il suo obiettivo.
Jesse annaspò, non si era aspettato resistenza da parte di quell’ometto buffo. Digrignò i denti tra le lacrime.
– Ti prego… – implorò piano Boetticher, avvicinando gli occhi sinceri al volto dell’assassino (“perché non scappa?” si domandò quest’ultimo. Perché non provava almeno a dare a se stesso e a lui un possibilità?).
– Farò ciò che vuoi – proseguiva invece stupidamente: – Tutto ciò che vuoi… E’- è per la droga? Sei un uomo di… –
Jesse strinse la presa sul manico dell’arma e cercò di vincere la resistenza di Gale: egli non si arrese, mentre la lama penetrava nella mano impegnata a mantenere fermo il coltello.
Ma l’altro perse la testa, scagliandosi come un ariete contro la vittima indifesa. Gli lasciò un taglio sulla gola, non abbastanza profondo per ucciderlo; colpì ancora, e ancora non lo fece con sufficiente decisione, anche perché il chimico continuava a lottare per contrastarlo.
Come se avesse nel pugno un coltello male affilato, Jesse fu costretto a infierire a lungo su Beotticher prima di sopraffarlo: il sangue di lui gli inumidiva i polpastrelli, rendendogli scivolosa la presa sull’arma. E i suoi occhi lo osservavano morenti, sconcertati e imploranti.
Alla fine Pinkman gettò lontano il corpo pietosamente privo di vita di Gale, ascoltando il silenzio attorno. Era cupo, e gli forava i timpani.