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La spiegazione del finale di Breaking Bad

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La chimica, ci ha insegnato Walter White, è lo studio del cambiamento. E quale trasformazione potrebbe essere più significativa di quella che abbiamo testimoniato nell’episodio finale di Breaking Bad, dove ogni elemento si è finalmente cristallizzato in una conclusione tanto inevitabile quanto poetica? Una spiegazione del finale di Breaking Bad non può essere semplicemente la narrazione degli ultimi momenti di un antieroe (e le sue “vittime”, tra cui Jesse Pinkman), bensì anche la culminazione di un’opera d’arte che ha ridefinito il concetto stesso di storytelling televisivo. Come un’equazione chimica perfettamente bilanciata, il creatore Vince Gilligan ha orchestrato un finale dove ogni molecola narrativa trova il suo posto naturale nell’universo della serie.

Walter White, l’uomo che è partito come insegnante di chimica per trasformarsi in Heisenberg (quel nome che per lui significa tutto), il signore della metanfetamina, completa il suo arco narrativo in un modo che rispecchia la precisione scientifica che ha sempre caratterizzato il suo approccio alla “cucina”. L’episodio “Felina” – un anagramma di “finale”, per non farci mancare nulla – rappresenta il culmine di questa trasformazione.

Soltanto una spiegazione del finale di Breaking Bad può rivelare come ogni scelta stilistica e narrativa sia stata meticolosamente calibrata.

In ogni singolo elemento, in ogni breve scena. A partire dal ritorno di Walt ad Albuquerque, come un fantasma che vaga tra i resti della sua vita precedente, che è accompagnato da una fotografia desaturata che evoca il deserto del New Mexico, territorio che ha fatto da sfondo alla sua metamorfosi. Passando poi per la precisione chirurgica con cui Walt orchestra la sua vendetta contro gli uomini di Jack, che riflette la meticolosità del chimico che non ha mai veramente abbandonato e che ha fatto da veicolo alla sua vera natura. Chiudendo poi con il dispositivo rotante nel bagagliaio che pone fine a ogni sofferenza, e che diventa una metafora della sua intera esistenza: un meccanismo perfetto progettato per produrre distruzione.

Ma la vera essenza nella spiegazione del finale di Breaking Bad, in fondo, più che nelle vicende pratiche risiede nei momenti intimi. Quelli che per ogni personaggio fanno da raccoglimento più che da confronto. L’ultima conversazione di Walter con Skyler, dove finalmente il primo ammette “L’ho fatto per me. Mi piaceva. Ero bravo in questo. Mi faceva sentire vivo”, rappresenta la confessione finale di un uomo che ha smesso di mentire non solo agli altri, ma anche a se stesso.

È un momento di catarsi che risuona attraverso cinque stagioni di autoinganni e razionalizzazioni. In questo intreccio di destini, è Jesse Pinkman a emergere come il vero specchio morale della serie, l’altra faccia della medaglia nella spiegazione del finale di Breaking Bad. La sua fuga verso la libertà, urlando a squarciagola mentre sfreccia nella notte dell’Alaska, non è solo un’evasione fisica. È la liberazione di un’anima che, a differenza di Walt, ha conservato la sua umanità nonostante l’inferno attraversato. Quel grido primordiale racchiude anni di trauma, dolore e, finalmente, redenzione.

E qual è il ruolo di Jesse Pinkman, in tutto questo?

L’evoluzione di Jesse da “ragazzino irresponsabile” a uomo segnato dal dolore – ma ancora capace di sperare – rappresenta il contrappunto perfetto alla discesa agli inferi di Walter White. Mentre il suo mentore ha abbracciato l’oscurità, Jesse ha lottato costantemente contro di essa, pagando un prezzo terribile per ogni sua scelta. La sua prigionia nelle mani di Todd e gli uomini di suo zio, costretto a cucinare metanfetamina in condizioni disumane, diventa una potente metafora della schiavitù morale che l’impero criminale di Heisenberg ha generato.

È dunque quella scena finale di Jesse al volante, con le lacrime che si mescolano alle risate mentre sfreccia verso un futuro incerto, che racchiude l’essenza stessa della redenzione. Un urlo che non è solo liberazione, bensì voce di chi ha guardato nell’abisso ma ha scelto di non lasciarsi consumare. È il grido di chi, attraverso il dolore e la perdita, ha mantenuto intatta la propria anima. In questo senso, dando una spiegazione al finale di Breaking Bad, ci rendiamo conto di come Jesse rappresenti la possibilità di salvezza anche nel più profondo degli inferni morali.

Se per Jesse è la sua auto, per Walter White, invece, è il laboratorio sotterraneo a diventare palcoscenico finale per l’ultimo atto.

Accarezzando amorevolmente l’attrezzatura chimica, come un musicista che saluta il suo strumento preferito per l’ultima volta, Walt trova la pace nel luogo che ha dato origine alla sua trasformazione. La ferita da proiettile nel suo fianco, che lentamente lo dissangua mentre si aggira tra i suoi amati strumenti, diventa il simbolo perfetto della sua caduta: la scienza, che gli ha dato potere, ora assiste passivamente al suo ultimo respiro. La scienza è viva, è un personaggio pensante nella serie, tant’è che nel tentativo di comprendere la spiegazione del finale di Breaking Bad non possiamo ignorare il parallelismo con la chimica organica, che vuole che tutto si trasformi in un ciclo continuo di creazione e distruzione.

Perfino la canzone “Baby Blue” dei Badfinger, che accompagna gli ultimi istanti, non è una scelta casuale. Il testo fa infatti da commento poetico sulla relazione di Walt con la sua “creazione speciale”, quel mezzo deviante che ha definito la sua esistenza criminale: la blue meth. Come un poeta che compone il suo ultimo verso o un chimico che perfeziona la sua formula finale, Walt termina dunque il suo viaggio in Breaking Bad esattamente dove doveva, circondato dai simboli della sua trasformazione. Il cerchio si chiude perfettamente, come una reazione chimica che ritorna al suo stato di equilibrio.

Proprio come in chimica, nella vita non esistono scorciatoie: ogni azione genera una reazione, ogni scelta ha le sue conseguenze. E, alla fine, le leggi dell’universo – sia morale che fisico – richiedono il loro tributo. Walter White muore come ha vissuto: un uomo di scienza che ha scoperto che la più grande trasformazione chimica è stata quella della sua stessa anima.