Recensione El Camino, il film di Breaking Bad
Mike Ehrmantraut ha sempre avuto tanti difetti. Irascibile, duro all’inverosimile. Uno senza mezze misure, per usare una citazione tanto cara all’ex uomo di fiducia di Fring. Ma Mike Ehrmantraut aveva anche dei pregi. Era cauto. Intelligente. Lungimirante e paterno. Ritrovarcelo all’inizio di El Camino, il film sequel di Breaking Bad che aspettavamo ormai da non si sa quanto, è stato un colpo al cuore. Ma anche un‘avvisaglia alla mente. Mike è un uomo di poche parole, e visto che ne ha poche non ne spreca mai. Chi sa ascoltarlo, in genere, ne beneficia. E Jesse Pinkman a suo modo ha sempre saputo ascoltarlo. Solo che la presenza di Walter White non ha mai giovato a nessuno dei due. A Mike è costata la vita, a Jesse no. Ed è per questo che Jesse ricorda.
– “Tu dove andresti, se fossi in me? Se avessi la mia età.” –
– “Alaska. Alla tua età, se dovessi ricominciare, andrei in Alaska. E’ l’ultima frontiera. Lassù puoi essere chiunque tu voglia”. –
Jesse ricorda Mike, ed è così che si apre El Camino. Lo ricorda perchè quell’uomo burbero e tutto d’un pezzo per lui è stato – seppur per breve tempo – un padre sostitutivo molto più di quanto lo sia stato quel narcisista di White. Lo ricorda perchè adesso ha bisogno dei suoi consigli. Adesso che tutto sembra ormai definitivamente compromesso. Ma c’è ancora quel sogno. Quell’opportunità suggerita da un uomo anziano che se fosse potuto tornare indietro, avrebbe fatto mille cose diversamente. Alaska.
Il ricordo di inizio film lascia presto spazio alla realtà. Jesse è disperato. L’urlo rabbioso e speranzoso del finale di Felina sfuma nella nostra memoria e sul nostro schermo, assumendo le sembianze dell’utopia di un ragazzo col proprio destino in sospeso, ancora tutto da scrivere. Da lì ripartiamo, con la polizia che fa irruzione nel laboratorio di Todd e Zio Jack, dove Walter White ha appena messo in atto la sua ultima carneficina. Salvando Jesse, che però vede la polizia materializzarsi sulla sua strada. Va a sbattere, parcheggia nervoso davanti a un casolare abbandonato. Jesse non è salvo, non lo ha salvato Walter White. Jesse, per una volta, dovrà salvarsi da solo.
C’è solo un posto dove può andare per rifugiarsi dalla polizia, da se stesso, da tutto e da tutti. Jesse lo sa. Skinny Pete non ha mai spiccato per personalità. E’ un piccolo criminale in un mondo di grandi criminali, e tale è rimasto per tutta la sua esistenza. Un bene per lui, perchè non ha dovuto assaggiare le pene dell’Inferno che inevitabilmente colpiscono chi fa del male. Il male porta sempre al male. Ma Skinny non lo sa, e da sempre idolatra Jesse. Nella sua testa, colui che ce l’ha fatta. Qualcuno da divinizzare. Un mito.
Alla porta di Skinny, quindi, mentre noi vediamo soltanto un uomo distrutto, disperato e completamente perso, il buon Pete vede materializzarsi una sorta di divinità. Ma anche un grande amico che non può essere abbandonato nel momento del bisogno. Cibo, doccia, barba e capelli tagliati, due parole coi vecchi compagni di sempre e si riparte. Jesse deve trovare il modo di arrivare in quella maledetta Alaska.
Dopo questo emozionantissimo prologo, comincia la vera fuga di Jesse Pinkman verso la libertà. E comincia per noi un intensissimo viaggio nella prigionia, fisica e mentale, dell’ex allievo di Walter White. Fatto di paranoie, terrore, tristezza e malinconia, ma finalmente anche consapevolezza. Messo all’angolo, Jesse capisce che c’è un’ultima opportunità per dare una svolta alla sua vita e che o la coglie adesso o è finita per sempre. Senza più nessuno che gli dica cosa deve fare e senza più nessuna speranza apparente, Pinkman riesce a tirar fuori il carattere che gli è sempre mancato.
La disperazione senza via d’uscita gli fa tirare fuori le palle. E gli permette di combattere i mostri, del passato e del presente, con cui finora aveva convissuto fin troppo passivamente.
Kandy non era altro che uno dei tanti vermi sottomessi allo zio Jack. Jesse divide il companatico con lui e il suo amico finto poliziotto come se nulla fosse, perchè non c’è tempo. Non c’è tempo per pensare a chi abbia più diritto a prendere la maggior fetta dei soldi di Todd, perchè Jesse deve scappare via. Via da tutto questo mondo da cui si è fatto dominare fin adesso. Ma il fatto che Jesse lasci andare, non significa che Jesse abbia smesso di ricordare.
Stavolta lascia andare gli eventi consapevolmente, con raziocinio. E paradossalmente con molto più controllo di tutto quello che ha avuto nella sua vita. C’è un obiettivo, l’Alaska. Bisogna andare dal tizio. Quello di Saul, quello del ‘tizio che conosce un tizio che conosce un tizio’. Quello che ha fatto scappare Walter White. Ma c’è un problema, l’ennesimo. Mancano 1800 dollari. Il tizio li vuole fino all’ultimo centesimo. Jesse non li ha e prova a reperirli a casa dei suoi genitori. Prima li chiama, però. E anche in quella telefonata notiamo un altro Jesse. Distrutto ma deciso. Non piagnucolone e preda di se stesso.
“Ehi, sentite. Probabilmente è tardi per dirlo, non ho idea se possa essere importante per voi. Ma avete fatto il massimo. E qualunque cosa mi accada, è colpa mia, ok? Di nessun altro”.
Jesse si assume le proprie responsabilità e saluta così i suoi genitori, discolpandoli da ogni peccato. Un diversivo per entrare in casa e prendere i 1800 dollari rimanenti. Ma i soldi non ci sono, e ormai non c’è più tempo. Una scena che è la versione light e quieta di quella di una famosissima puntata di Breaking Bad, dove Walter White disperato chiede urlando alla moglie Skyler: “Where is the money?”. Jesse però non ha nessuno a cui chiedere, nessuno che può aiutarlo. Deve fare tutto da solo, ormai. Nella cassaforte trova delle pistole che gli saranno utili per riprendersi in mano il suo futuro. Poco prima però, c’è una scena tanto apparentemente insignificante quanto estremamente intima e toccante. Appena entra in casa dei suoi, Jesse trova il rubinetto aperto. E lo chiude.
Un gesto di premura nei confronti di chi ha provato ad allevarlo secondo buoni principi, ma non c’è riuscito. Più del gesto, però, è lo sguardo di Jesse a quel rubinetto che smette di sgorgare acqua, a colpirci. Un atto così semplice, porta il giovane Pinkman a sfoderare uno sguardo di consapevole rassegnazione. Sarebbe potuto essere un gesto di quelli che si compiono all’ordine del giorno. E poi tutti a cena insieme, magari in un weekend a casa prima di tornare al college. Jesse ha perso tutto questo per colpa della sua ignavia, e in quel momento lo realizza. Ma è troppo tardi. Non c’è più tempo per pensare.
C’è solo una persona che può dargli i soldi che servono al tizio: quel Kandy con cui Jesse ha ancora un conto in sospeso. Irrompe nel suo fortino e gli chiede 1800 dollari, gli ultimi che gli servono per fuggire. Ma Kandy non ci sta e lo sfida: tutti i miei soldi per tutti i tuoi soldi. Chi spara per primo vince, chi perde muore.
“Are you ready?” – “Yeah”
Kandy gli chiede se è pronto, conteranno fino a tre e poi sfodereranno le pistole. Ma Jesse, di pistola, ne nascondeva un’altra nel giubbotto. Uccide a sangue freddo colui che lo ingabbiò, stavolta senza pietà, e fa lo stesso col suo amico. Jesse decide per una volta, per la prima volta, di essere ‘cattivo’ per il suo bene. Di fatto è il momento in cui decide il suo destino facendo una cosa che non ha mai fatto volutamente: fare del male ad altre persone. Lo ha fatto indirettamente nella sua vita, subendone le giuste conseguenze e soffrendo come un cane. Stavolta decide consapevolmente di fare del male, a chi prima lo aveva fatto a lui. Il dialogo Jesse-Kandy, quelle 4 parole in croce che ci hanno messo a fine trailer (“Are you ready? – “Yeah”) sembravano il preludio a una cosa: la morte di Pinkman. Ci eravamo immaginati qualcuno che stesse per ucciderlo, e lui rassegnato e al contempo quasi contento di farla finita con quella vita che gli aveva dato principalmente dispiaceri.
Invece, è la sua resurrezione.
Jesse decide di essere pronto. Pronto a risorgere, e non a morire accartocciandosi su se stesso come avrebbe fatto in passato. C’è ancora un’intera vita davanti: lo ha capito tardi, ma per sua fortuna non troppo tardi. Arriva in Alaska con una nuova identità, un nuovo nome, una nuova esistenza da portare avanti. Un’esistenza in cui potrà essere finalmente se stesso: niente più Walter White, niente più Gus Fring, niente più nessuno che decida per lui. Come gli aveva consigliato il buon Mike, unico personaggio di un mondo marcio abbastanza altruista da suggerirgli sinceramente una via d’uscita.
L’ultima scena di Jesse è in totale contrasto con tutto quel che avevamo visto prima in Breaking Bad. Col finale del Pinkman di Felina, ovviamente: da una parte un Jesse alla guida di un catorcio, sporco, rabbioso e inerme, per quanto urlante. Dall’altra un Jesse finalmente tranquillo, ben vestito, alla guida di una macchina normale e col volto disteso.
E in contrasto col finale di Walter White: Walt ha avuto una vita piatta, tranquilla, quieta. In Breaking Bad tira fuori se stesso, facendo tutto ciò che non ha fatto prima e quindi è tutto movimentato, estremo, perchè White doveva ‘recuperare‘ tutto quello che non aveva vissuto. Il suo finale è coerente con la sua evoluzione: morte epica e strappalacrime, con una canzone tremendamente iconica come “My Baby Blue” in sottofondo.
Jesse Pinkman, invece, ha avuto una vita totalmente movimentata da quando è nato, ma l’ha avuta perchè non ha saputo scegliere e si è fatto dominare dagli eventi. Quella vita, però, non l’ha mai voluta veramente. E il finale di Jesse va in perfetta connessione con ciò che Jesse ha sempre voluto per se stesso, sotto sotto: quiete totale. Impeccabile da parte di Gilligan anche la scelta di non mettere nessuna canzone come sottofondo al nostro addio a Pinkman. Sarebbe stato forse più da brividi, ma anche più incoerente con l’evoluzione finale che abbiamo visto in El Camino.
In definitiva, El Camino è un ottimo film. Non se preso singolarmente, ovviamente senza Breaking Bad non avrebbe senso di esistere. Ma è un ottimo film intendendolo come ultima estensione dell’universo Breaking Bad. Qualcuno ha detto che è un film fiacco, e in parte è vero. Ma non è affatto un punto a sfavore della pellicola, a parere di chi scrive. I ritmi bassi e cadenzati della narrazione sono la perfetta rappresentazione sensoriale dell’utopia realizzata (per quanto ormai sgangherata, triste e devastata) di Jesse Pinkman.
L’utopia di poter godere di una vita tranquilla, per uno che si è trovato a vivere nella più tremenda frenesia per 30 e più anni, senza nemmeno mai volerlo. Jesse è libero e, che se la sia meritata o meno, avrà una seconda possibilità. Per una volta che ha deciso di decidere, la vita gli ha sorriso. A noi non rimane che salutarlo per l’ultima volta, consapevoli che – stavolta sì – è finito per sempre un viaggio lungo 11 anni, tra una cosa e l’altra. Quindi buona vita, Jesse. E addio, Breaking Bad.