Da qualche tempo a questa parte Bridgerton è la serie di cui tutti parlano ma, stranamente, sono pochi i coraggiosi che ammetteranno di averla guardata. Pochissimi. E questo è ancor più vero per chi si dà arie da intellettuale cinefilo che non si abbasserebbe mai al livello di un, diciamo, 50 volte il primo bacio, quando sopra al letto vede campeggiare emblematico (e giudicante) il poster di 2001 odissea nello spazio. Insomma, èuna questione d’immagine, dopotutto.
Ed è proprio per questo che sorge spontanea la domanda: ma se quei “pochi” (sì certo come no) che l’hanno guardata si vergognano ad ammetterlo, com’è possibile che Bridgerton sia una delle serie Netflix più viste di sempre? Cos’è, siamo di fronte a un errore negli algoritmi della piattaforma? Mistero della fede!
La verità è che Bridgerton è stata l’ennesimo colpo di genio della premiata ditta a marchio Shonda Rhimes. La serie britannico-statunitense, creata da Chris Van Dusen e arrivata su Netflix lo scorso 25 dicembre come peccaminoso regalo di Natale, è stata infatti prodotta dalla Mida delle produzioni seriali, che con il suo “tocco magico” è riuscita ancora una volta a offrirci un prodotto in grado di monopolizzare l’attenzione del pubblico.
E se i romanzi rosa da cui la serie è tratta, scritti da Julia Quinn e ispirati allo stile regency di (dèi della Letteratura, abbiate pietà di me) Jane Austen, a pochi giorni dalla sua uscita hanno visto schizzare alle stelle il loro prezzo (si parla di 700 dollari a copia!), beh, questo non può che significare una cosa: Bridgerton è il nuovo fenomeno mediatico dell’universo seriale, e possiamo scommettere che ne sentiremo parlare ancora a lungo.
La trama è un adorabile pastiche di molti dei luoghi comuni più frequentati dalla letteratura regency: una famiglia nobile della Londra dei primi dell’800, i Bridgerton del titolo, è alle prese con il debutto in società della maggiore degli otto figli, la compassata e responsabile Daphne (Phoebe Dynevor), che sente su di sé tutto il peso e la pressione del proprio ruolo ed è ben consapevole di dover a tutti i costi trovare marito. A causa di vicissitudini varie ed eventuali su cui non ci dilunghiamo ma che, possiamo garantire, sono presentate allo spettatore sotto forma di mix stranamente ben riuscito tra trine e merletti e Gossip Girl, la nostra eroina si troverà a stringere un patto con il tenebroso duca Simon Bassett.
Costui (interpretato da Regé-Jean Page, ormai sex symbol internazionale nonostante una recitazione non esattamente da Actor Studio) è il classico bello e impossibile, il duro dal cuore tenero che tutte le madri dell’alta società vorrebbero come genero. L’accordo tra i due prevede che Simon finga di corteggiare Daphne in modo tale che entrambi ne traggano vantaggio: lei vedrà decuplicarsi il numero dei pretendenti alla sua mano, e lui potrà tenere a bada le agguerrite folle di fanciulle a caccia di marito. Il resto va da sé, e se vi state chiedendo se tra i due scatterà l’inevitabile passione, la risposta è sì, ovviamente.
Alla storyline principale dei due protagonisti fanno da contorno quelle degli altri personaggi: i fratelli e le sorelle di Daphne, gli amici di famiglia e persino l’imprevedibile regina Charlotte, tutti tenuti sotto lo scacco della misteriosa lady Whistledown, autrice senza volto di un periodico di pettegolezzi che mira a svelare i segreti più torbidi dell’alta società.
Detto ciò, si fa pressante il dubbio etico che ci attanaglia in questi casi: sono moralmente autorizzato a concedermi un’innocua e banalotta commedia romantica in stile Come farsi lasciare in 10 giorni se il mio film preferito è I sette samurai di Hakira Kurosawa? Oppure, visto che siamo in tema letteratura: posso cedere ogni tanto al richiamo suadente di un sano, vecchio Harmony se ho scritto la mia tesi di laurea sull’anarchismo cristiano di Tolstoj?
Ebbene, partiamo dal presupposto che l’ultima creatura di Shonda Rhimes non è assolutamente un prodotto da buttare tout court.
La serie può infatti vantare parecchi punti di forza, e in primis la messa in scena, che è davvero curata nei minimi dettagli: l’intero comparto scenografico dimostra una cura maniacale nella ricostruzione di ambienti e paesaggi della Londra dei primi dell’800, e lo stesso dicasi dei costumi, tra i più belli e originali mostrati nelle serie tv degli ultimi anni.
Certo, nessuno potrà negare che la produzione si sia presa più di qualche libertà storica (tra le tante: in epoca Regency non si usavano i parrucconi del 1600, proprio no, né ai balli dell’alta società le orchestre suonavano Billie Eilish), ma in fin dei conti l’operazione non è affatto risultata forzata o fuori luogo. Piuttosto, queste scelte “revisioniste” hanno donato carattere a un prodotto che rischiava il tranello dell’opacità in stile sceneggiato in costume BBC dei primi anni 2000.
Anche la scelta del cast è risultata azzeccata e ha saputo far parlare di sé. Bridgerton è stata infatti la prima serie in costume in cui molti dei ruoli principali (a partire dal protagonista maschile) sono stati affidati ad attori afroamericani, e se questa scelta antistorica ha fatto storcere qualche naso la maggior parte del pubblico ha apprezzato il cast variegato e convincente.
Certo, la storia è trita e ritrita e sembra uscita fuori da uno di quegli Harmony che vediamo impolverarsi nelle vetrine delle edicole, ma al di là dei risvolti di trama più che telefonati e delle scene sexy e, a volte, involontariamente comiche tra i due protagonisti, alcuni spunti tematici di Bridgerton non sono affatto male e sono trattati con una scrittura briosa e in grado di catturare l’interesse dello spettatore.
Primo fra tutti, senza dubbio il tema del ruolo della donna in epoca georgiana, una figura del tutto priva di volontà o di possibilità di scelta, e ridotta a pura merce di scambio nello spregiudicato mercato matrimoniale delle famiglie facoltose.
Le giovani protagoniste di Bridgerton, ognuna a suo modo, vedono nel matrimonio un punto d’arrivo inevitabile (e in qualche caso una condanna) alla fine di una strada obbligata che qualcuno ha già tracciato per loro. Il paradosso è che queste donne del matrimonio non sanno assolutamente nulla, così come dei complicati rapporti fra moglie e marito, che nella seconda parte della serie diventeranno nodo centrale nella travagliata storia tra Simon e Daphne.
In definitiva, dunque, Bridgerton è un prodotto che può soddisfare una larga parte di pubblico purché lo si prenda per quello che è, e cioè una serie che non ha velleità di ricostruzione storica fedele né di trasposizione puntuale di una letteratura di livello.
Ecco perché l’eterno dibattito tra arte “alta” e guilty pleasure in questo caso perde in partenza di significato: siamo di fronte a un prodotto che diverte e appassiona, pur con tutti i suoi evidenti limiti, e che può riservare qualche ora di sana spensieratezza a un pubblico che ci si voglia approcciare senza troppe pretese. Una serie leggera, dunque, da gustare anche in binge watching come si fa in estate con un bel bicchiere di limonata ghiacciata, riservando ad altri tempi e momenti il piacere di un ottimo vino rosso d’annata.