Cosa rende horror un horror? Non mi sono mai soffermata troppo su questa domanda prima di cominciare a vedere La stanza delle meraviglie di Guillermo del Toro, un’antologia che ha tutte le carte in regola non solo per essere considerata pienamente nel genere, ma anche per essere uno di quei prodotti fatti davvero bene. La serie – omonima del film di Todd Haynes del 2017 che vede tra i protagonisti Julianne Moore ed è attualmente disponibile su Amazon Prime – è una raccolta di otto episodi ognuno con una propria trama e una propria vita slegata dagli altri. Tutti sono però collegati dalla cura di Guillermo del Toro, produttore esecutivo e presentatore delle storie, nonché da un fil rouge, una connessione di fondo che li sottende e gli dona la profondità che li caratterizza.
Che le serie antologiche si prestano bene alla narrazione di tematiche complesse lo abbiamo imparato con Black Mirror
La serie antologica per eccellenza, quella che con le sue cinque stagioni ci prende per mano e ci porta a scoprire le possibili degenerazioni tecnologiche del nostro mondo, ha aperto un solco nel quale La stanza delle meraviglie di Guillermo del Toro trova una collocazione ben precisa. A essere descritti e narrati però non sono mondi futuri ma tempi più o meno passati nei quali la quotidianità si fonde con la magia, con il paranormale e con l’inquietudine. Insomma, proprio con quegli elementi che sono caratteristici e intrinsecamente legati al genere horror.
I protagonisti delle storie della serie (non ci sarà Julianne Moore ma c’è Andrew Lincoln, e a me va bene lo stesso) sono persone più o meno normali in contesti più o meno ordinari. Ciò che gli succede, ciò che si trovano spesso a vivere e più spesso a subire, porta però le loro vite a uscire dal caldo abbraccio della quotidianità per immergersi in mondi di cui sanno – e sappiamo – poco o niente. Riti di dubbia origine, topi più o meno grandi e antropomorfi che si muovono e ragionano con i loro obiettivi, specie extraterrestri, spiriti, ossessioni: sono tutti elementi tipici del mondo dell’orrore che si muovono, si alternano, articolano e a volte si fondono per strutturare delle storie che – quale più, quale meno – hanno tutte il potere di lasciare con il fiato sospeso. Se avete bisogno di una prova dell’ansia generata eccomi qua: una donna fatta e formata, amante degli horror, che salta in piedi con il batticuore nel momento in cui, nel pieno dell’episodio 3, una foto attaccata male vola via dalla mia parete, cosa che succede un giorno sì e l’altro pure.
Lo zampino di Guillermo del Toro, colui che ha scelto questi otto mondi e che ci porta per mano a visitarli, si vede e si sente tutto.
E devo dire che la scelta si è rivelata più che azzeccata, dato che La stanza delle meraviglie di Guillermo del Toro non risente per niente dell’omonimia con il film di Amazon Prime. Eppure nessuna delle storie è stata diretta da lui. A otto pluripremiati registi e registe è stato dato spazio d’espressione in La stanza delle meraviglie di Guillermo del Toro, da Vincenzo Natali di Cube a Jennifer Kent di Babadook, passando per Guillermo Navarro e Catherine Hardwicke. Tutti e tutte legati al mondo del dramma, del thriller e dell’horror. A ognuno è stato dato il compito di portare sullo schermo una storia, spesso tratta da racconti brevi (in alcuni casi scritti proprio da del Toro), e ognuno l’ha fatto conferendole il pathos che solo l’horror fatto bene sa dare, prendendo elementi spaventosi e fantastici e rendendoli strumento di racconti ben fatti.
E la scelta dell’horror, delle stranezze, dell’inquietudine, gioca tutto il suo potere. Le tematiche messe in scena nell’antologia non sono certamente leggere: si parla di avidità, di potere, di lutto, di assenze che si vorrebbero presenti e di presenze che invece non dovrebbero esserci. Tutti temi che si possono trattare – e sono stati infatti storicamente trattati – utilizzando i generi più disparati. Eppure l’horror fa la differenza.
Se c’è qualcosa che il cinema e la serialità ci aiutano davvero a fare è riflettere sulla nostra realtà, sul suo meglio ma anche sul suo peggio. E quale modo migliore per aiutarci a comprenderlo di portarlo all’ennesima potenza? Cosa c’è di meglio di creare un mondo altro dal nostro che ne enfatizza le bruttezze ma dal quale, se abbiamo troppa paura, possiamo scappare? Quindi dei topi famelici diventano la nostra avarizia, dei tubetti di crema il nostro bisogno di apparire, degli uccellini la nostra ossessione per dimenticare ciò che ci turba davvero. E quando gli episodi arrivano al loro The End noi torniamo nel nostro mondo diversamente spaventoso. Insomma, ne usciamo ma non ne usciamo, perché in realtà è tutto intorno a noi. Ed è proprio questa la vera magia dell’horror.