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Facciamo ordine: il caso Caleidoscopio

caleidoscopio
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Destrutturante lo è, nel senso più proprio del termine. Intelligente anche, perché si serve del disordine per abbozzare un ordine, della confusione per incanalarsi in un metodo. Caleidoscopio è la nuova serie tv Netflix con Giancarlo Esposito che sta facendo parlare tanto di sé nelle ultime settimane. Un esperimento nuovo, ma neanche troppo, considerando che di precedenti simili se ne possono rintracciare diversi nelle proposte più recenti in ambito seriale. E però, lo show apparso su Netflix il primo giorno dell’anno, ci lascia lì ad interrogarci su sostanza e metodo, su forma e contenuto, sulla struttura narrativa di una storia che lascia affascinati solo a metà e che diventa persino secondaria rispetto all’organizzazione del racconto. È sperimentale, azzardata e sicuramente confusionaria come prova, eppure non si può fare a meno di parlarne, di guardarla con sospetto, di tastare più volte il palato per capire se il risultato finale ci abbia soddisfatti oppure no. Caleidoscopio è un microcosmo in continuo movimento: non ha un inizio e non ha una fine, è qualcosa che non si afferra, che sfugge, che scivola via esattamente nell’istante in cui crediamo di averla agguantata. Ed è innanzitutto per questo che vale la pena parlarne.

Kaleidoscope – questo il titolo originale della serie creata da Eric Garcia – è un’esperienza visiva prima ancora che una storia.

Caleidoscopio (640x360)
Caleidoscopio (640×360)

Per questo, molto personale, soggettiva, variabile. La novità è che l’utente può scegliere l’ordine in cui guardare gli episodi. Netflix ne ha individuato uno, ma nel breve episodio introduttivo dello show, i creatori spiegano che non esiste un filo preciso da seguire come in una serie tv tradizionale: ciascun utente può immergersi nella visione facendo la sua libera valutazione. In rete circolano vari articoli con suggerimenti sull’ordine da tenere a mente per godere dell’esperienza visiva migliore. Ma ognuno può ragionare su criteri diversi di scelta. È proprio questa la cosa interessante di Caleidoscopio: è una serie tv non lineare, che sfida il pubblico, che lo stimola a essere parte attiva della narrazione. Qualcosa che gli utenti di Netflix avevano già sperimentato con Black Mirror: Bandersnatch, il film interattivo realizzato da Charlie Brooker per la piattaforma. Nel caso di Kaleidoscope, lo spettatore non può sostituirsi al protagonista, ma può comunque crearsi l’esperienza visiva che più gli aggrada. L’esperimento – non è il primo caso di prodotto televisivo che lascia il comando nelle mani del pubblico – potrebbe dare il via a una serie di lavori basati sullo stesso presupposto. Le innovazioni in campo seriale puntano anche in quella direzione, sebbene non lascino tutti pienamente soddisfatti e ugualmente entusiasti.

Lo show con Giancarlo Esposito, grazie a questa particolare tecnica di narrazione, diventa flessibile, mutevole, e ognuno può averne una percezione diversa.

Caleidoscopio (640x360)
Caleidoscopio (640×360)

Esattamente come le tessere di un caleidoscopio, anche l’intreccio della storia può essere scomposto e ricomposto innumerevoli volte per giungere sempre a un risultato diverso. I filoni narrativi si moltiplicano e danno vita a immagini differenti. I frammenti si compongono in figure colorate e simmetriche, un segmento si lega all’altro per poi disaggregarsi, smembrarsi e riallacciarsi a una nuova immagine riflessa. È chi maneggia lo strumento che ha il potere di creare le visioni che possono compiacere di più l’occhio. Ma il caleidoscopio è solo un mezzo di cui i creatori della serie si servono per rendere tangibile ed esplicito un concetto: la realtà non è fissa, è semmai la nostra visione che lo è. Se si continua a ruotare il caleidoscopio, ci si accorge che ogni figura cambia forma e colore sotto il nostro sguardo. La stessa immagine, se osservata da un’angolazione differente, può cambiare e suscitare sensazioni diverse, persino contrastanti. Ragion per cui è difficile mettere d’accordo gli utenti che hanno guardato Kaleidoscope. La sequenza che si sceglie di seguire per guardare la serie può influire sul giudizio finale. Chi opta per l’ordine cronologico, guarderà prima l’episodio Viola e alla fine il Rosa, partendo da ventiquattro anni prima del colpo a sei mesi dopo. Sui sui canali social, Netflix ha lasciato dei suggerimenti per gli utenti: Kaleidoscope come un film di Tarantino, Kaleidoscope come un giallo classico, Kaleidoscope come Orange is the New Black. Insomma, le vie per immergersi nell’heist story di Eric Garcia sono tante e ciascuna alla fine può lasciare qualcosa di diverso in chi guarda.

Caleidoscopio è una sorta di rompicapo da comporre e scomporre più volte per afferrarne il senso, per giungere a una sintesi.

L’opera di destrutturazione narrativa serve per approdare, una volta arrivati fino in fondo, ad una parvenza d’ordine. Ma si riesce veramente ad afferrarlo? La percezione finale è quella di aver preso parte a un’esperienza confusionaria. Lo scompiglio, il disordine, il caos, allontanano lo spettatore dagli schemi tradizionali e possono lasciarlo interdetto, incapace di esprimere un giudizio netto di condanna o approvazione. La confusione generata da questa visione fantasmagorica è il segnale di un esperimento fallito o l’azzardo di un’opera che vuole osare puntando proprio sulla relatività del punto di osservazione? La serie Netflix con Giancarlo Esposito ci spinge ad esplorare possibilità diverse, a osservare la stessa storia da postazioni differenti. Richiede una dose massiccia di tempo per riorganizzare le idee e metterle insieme, ma induce anche a riconsiderare quel che si è visto da un ulteriore punto di vista, a riprendere la visione spostando leggermente l’angolo di visuale e rimescolando ancora una volta le carte in tavola. È l’arte combinatoria della narrazione, che però non sempre lascia appagati e soddisfatti. Il disordine come metodo per raccontare una storia è un’intuizione che può funzionare?

L’organizzazione – o disoraganizzazione – narrativa di Caleidoscopio impreziosisce o impoverisce la trama?

Caleidoscopio (640x360)
Caleidoscopio (640×360)

Sono domande che si sono posti un po’ tutti gli utenti di Netflix una volta arrivati alla fine – qualunque essa fosse – della serie. L’impressione di molti è stata quella di aver guardato semplicemente uno show in ordine sparso, senza un filo logico preciso. La trama così spezzettata finisce per indebolire la storia. Kaleidoscope si rifà alla tradizione del caper movie, mette in scena un intreccio dettagliato e particolareggiato. Al centro del racconto c’è una rapina, organizzata secondo piani precisi e minuziosi. La struttura di un heist show ricorda quella di un puzzle, dove ogni pezzo va messo al posto giusto per incastrarlo a quello successivo e per dare alla fine un’immagine chiara di ciò che si vuole rappresentare. Raccontare il piano di una rapina in modo sparpagliato può diventare quindi problematico e difficile da comprendere fino in fondo. Di conseguenza, la trama ne esce snervata e sfilacciata, indebolita nella sua essenza. In Caleidoscopio, come già detto, la storia rischia di diventare secondaria rispetto alla struttura narrativa. E questa potrebbe essere una delle ragioni per cui la serie sembra non prendersi molto sul serio, preferendo invece giocare con il materiale che ha a disposizione e vedere l’effetto che ha su chi guarda. Il giudizio finale sullo show dipende dunque molto anche dall’ordine che si è scelto di seguire nel guardarla. Indovinare la sequenza più lineare potrebbe aiutare a capire meglio alcuni risvolti della trama, mentre andare in ordine sparso potrebbe prediligere altri aspetti, ma lasciare una sensazione di insoddisfazione una volta giunti al termine.

Questa serie supera il concetto stesso di spoiler e lascia addosso un senso di incompiutezza.

Caleidoscopio (640×360)

È come se la visione non fosse mai realmente terminata, come si ci fosse qualcosa di ancora inespresso che non si è riusciti ad afferrare. Il focus, più che sulla trama, è sui personaggi. Ogni colore ce ne mostra un lato diverso, una sfaccettatura che prima non avevamo notato. Ragion per cui il ruolo del protagonista è stato assegnato a un attore come Giancarlo Esposito, abile a mostrarsi un poco per volta e ad interpretare un personaggio enigmatico e dalle mille sfumature. Accanto a lui, anche Rufus Sewell, Paz Vega, Rosaline Elbay, Jai Courtney, Tati Gabrielle e Peter Mark Kendall. La totale immersione in questa esperienza visiva consente di osservare le tante facce dei suoi protagonisti seguendo un arco narrativo che non è già prestabilito, ma varia a seconda dell’ordine con cui scegliamo di approcciarci agli episodi. Un rebus da risolvere puntata dopo puntata, un enigma che si lascia scoprire un pezzettino per volta, lasciando lo spettatore in balìa dell’incompiutezza. Che sia proprio questa impossibilità di afferrare un ordine, un senso di finitezza, l’arma su cui puntava Caleidoscopio?