Il blocco dello scrittore è una brutta bestia. Lo sappiamo noi per primi, lo sapete voi e lo sanno gli scrittori di tutto il mondo, ogni qualvolta si trovano davanti all’ostica sensazione di non avere assolutamente niente da dire. A volte, però, la sindrome da foglio bianco può tornare utile e addirittura arrivare a stravolgerti la vita. E’ proprio questo lo spunto da cui si snoda la narrazione di Castle, la serie tv procedural andata in onda dal 2009 al 2016 di cui non ci stanchiamo mai di parlare. La serie creata da Andrew Marlowe è infatti riuscita a riscrivere la categoria del poliziesco in un modo mai visto prima concentrandosi su una delle cose che ci rende più umani: la scrittura. Carta e penna in mano. Si parte.
Castle prende il nome dal protagonista (indiscusso) della serie, Richard Castle: l’uomo, acclamato scrittore di gialli nel mezzo di una crisi creativa della sua carriera, viene chiamato per affiancare la detective della squadra omicidi Kate Beckett per risolvere un caso di omicidio che sembra aver preso ispirazione proprio da uno dei suoi romanzi. Trovandosi inaspettatamente galvanizzato dall’esperienza, lo scrittore chiede quindi il permesso di affiancare la detective come consulente e, quasi suo malgrado, inizia un’esperienza che gli cambierà la vita.
Anche se non sembra, Castle è riuscita a portare in scena una caratterizzazione dei personaggi di tutto rispetto, regalandoci una delle migliori coppie delle serie tv di cui, purtroppo, si parla ancora troppo poco. I due protagonisti non potrebbero essere più diversi: Richard è un fuoco d’artificio, un donnaiolo all’apparenza superficiale e arrogante con una smisurata passione per il crime e una volontà inscalfibile. D’altro canto, è profondamente buono, intelligente e smisuratamente esilarante, e non ci mette molto a far breccia nel dodicesimo distretto. Kate, invece, è una corazza dura da scalfire: di una bellezza glaciale, la donna è una detective coraggiosa, intraprendente e all’apparenza fredda e distaccata. Tormentata dal ricordo della madre (il cui omicidio è rimasto insoluto, e che lei è decisa ad ogni costo a risolvere), non si fermerebbe davanti a niente per ciò in cui crede e, inizialmente, vede nell’intervento di Castle solo una gigantesca scocciatura e un ostacolo al suo lavoro. Lui è solare, lei ombrosa. Lui è un libro aperto, lei un rompicapo impossibile da capire. Una ricetta per il disastro.
Eppure, e questo è uno dei primi punti di forza della serie, Castle gioca moltissimo sulle apparenze e si prende il suo tempo per costruire un rapporto complesso, difficile eppure esplosivo che ha fatto appassionare moltissimi fan del genere. In una New York dei giorni nostri, Richard e Kate si ritrovano, volenti o nolenti, a collaborare per risolvere omicidi di ogni sorta: complotti, rapine, ricatti, attentati. Castle ce ne ha proposte di cotte e di crude. E nonostante qualche scivolone (i fan si ricorderanno la quattordicesima puntata della quarta stagione, un capolavoro del trash sotto forma di rievocazione storica ambientata nel 1947) è riuscita a costruire una narrazione che appassiona. Gli episodi sono strutturati quasi sempre allo stesso modo: si parte con un caso da risolvere, si affrontano diverse vicissitudini e, spesso dopo qualche falsa pista, si giunge alla risoluzione del caso.
Al centro, sempre e comunque, ci sono Richard e Kate. Pian piano, senza che ce ne accorgiamo, assistiamo allo sviluppo del loro rapporto con una naturalezza da sottolineare. I due personaggi principali brillano singolarmente e insieme danno vita ad un pirotecnico spettacolo di luci: dove non arriva lei, giungono in soccorso le intuizioni di lui. Quando il nostro scrittore si fa prendere la mano dalle sue folli teorie sul paranormale, la razionale detective è sempre pronta a riportarlo con i piedi per terra. E si, sappiamo bene che prima o poi arriva l’amore a stravolgere ogni cosa, ma Castle è molto di più: ed è proprio per questo che alla domanda “abbiamo ancora bisogno dei procedural?”, la serie ci risponde con un sonoro “sì”.
D’altra parte è pur vero che non possiamo dirvi tutto, altrimenti chi ve lo fa fare di andarvela a recuperare. Vi basti sapere che i lati positivi non finiscono qui. I personaggi secondari sono tutti, o quasi, ben costruiti: la coppia di detective “in seconda”, Ryan ed Esposito, sono un duo esilarante e confortante. Martha, la madre di Richard, e la figlia Alexis rappresentano una parentesi leggera che permette di staccare per un attimo dal thriller che accompagna la visione. Castle non è esente da critiche, questo è vero: da una parte ci chiediamo ancora se il finale sia stato all’altezza delle aspettative, dall’altra la componente trash a volte penalizza la narrazione e ne abbassa il livello.
Eppure a Castle tendiamo a perdonare quasi tutto, perché è uno di quei prodotti che periodicamente vanno tirati fuori e che ogni tanto desidereremmo rivedere da capo, senza sapere cosa aspettarci. E’ confortante, divertente e ci risparmia un po’ di quella cupezza drenante che vediamo troppo spesso nelle serie tv crime. Soprattutto, Castle ci ha insegnato una cosa: a volte la scrittura ti cambia davvero la vita. Altre volte, la salva.