Se cercate una Serie politically correct, leggera, con personaggi simpatici e alla mano, che sappia rilassarvi e farvi un po’ commuovere quando serve siete nell’articolo sbagliato. C’è sempre il sole a Philadelphia è tutto l’opposto di quello che vi aspettereste da una comedy. È scorretta, volgare, razzista, antiperbenista, raccapricciante, orrorifica, depressiva. Insomma, un capolavoro.
Troppo spesso trascurata dalla critica, C’è sempre il sole a Philadelphia colleziona rinnovi su rinnovi (siamo arrivati ormai a 12 stagioni) negli USA e un fandom sempre più assiduo e devoto. Nonostante un indice di gradimento iperbolico, in Italia la Serie ha trovato poco spazio andando a occupare ritagli di programmazione in orari spesso notturni. Un’ingiustizia bella e buona che va sanata con una piccola, sentita apologia che seguirà nelle prossime righe.
C’è sempre il sole a Philadelphia parla di quattro amici e un pub a gestione familiare. Sentite aria di già visto? Sbagliato.
Perché il pub è inesorabilmente vuoto e squallido e i quattro amici sono i personaggi più stupidi, disonesti, approfittatori, scansafatiche che potrete mai trovare in una Serie. Gli episodi, tutti piuttosto indipendenti se non per una leggera trama orizzontale che si arricchisce di stagione in stagione con qualche dettaglio, affrontano i temi più variegati. Dalla pedofilia al razzismo; dalle beghe legali all’incesto; passando per prostituzione, nazismo, aborto e chi più ne ha più ne metta.
Gli interpreti, i quattri compari, non potrebbero essere peggiori soggetti per la trattazione di queste tematiche. Eppure, in ogni puntata, oltre alle sentite, immancabili e incontrollate risate, C’è sempre il sole a Philadelphia ci restituisce una visione lucida (per quanto scabrosa) della società occidentale. Quei freni, quell’attenzione controllata e coatta che altri autori hanno nella trattazione delle proprie Serie, qui viene abbattuta. Non ci sono limiti, non c’è buonismo né perbenismo. Ogni argomento riceve l’incontrollata mistificazione per bocca (sboccata) dei protagonisti. L’eterogeneità dei loro caratteri riesce inoltre a cogliere di ogni aspetto il risvolto più imprevedibile e ripugnante. Il vero volto dell’America, il pressappochismo, l’ignoranza politica, l’arrivismo e il cinismo emergono con sagace e imprevedibile gusto.
I personaggi sguazzano nei loro enormi difetti e si fanno forza a vicenda, chiusi nella loro bolla di filtraggio che li esclude dal resto del mondo e da una maturazione che mai vi potrà essere.
Frank Reynolds, un impareggiabile Danny DeVito, è forse l’interprete che meglio di altri chiarisce quanto quella “gang” di amici costituisca una volontaria alienazione dal mondo. Pur essendo ricco, infatti, Frank rinuncia a una vita di lussi per gettarsi in un mondo sporco e volgare, fatto di degenerazione e condizioni igieniche approssimative. Una sorta di nostalgie de la boue, un amore per il degrado che richiama il neroniano girovagare notturno per lupanari. Quell’attrazione unica per un mondo fatto di concretezza e immediatezza in cui gli istinti più perversi possono trovare naturale espressione di sé.
Anche il figlio di Frank, il piacente Dennis, potrebbe vivere diversamente: ha l’intelligenza, la parlantina, la prestanza e un fascino particolare. Eppure, anche lui come Frank, si è consacrato al degrado. A quella setta di “amici” che può sfruttare e controllare secondo le situazioni. In quell’ambiente Dennis è un re. Il suo arrivismo, la morale profondamente distorta e l’eterna ricerca di prede sessuali renderebbe il personaggio uno dei più abietti e urtanti in qualunque altra Serie. Non in C’è sempre il sole a Philadelphia dove le sue imprese finiscono sempre con un nulla di fatto; il suo charme viene macchiato umoristicamente dal narcisismo e dalla metrosessualità che lo contraddistinguono.
Quasi inevitabilmente risucchiata in questo vortice di aberrazione è anche la sorella di Dennis, Deandra.
Personaggio anti-comedy per eccellenza, Deandra appare tutt’altro che attraente e sensuale nei modi. Prototipo della ragazza ormai compromessa dall’avanzare degli anni, la sua volgarità si unisce all’atteggiamento da oca giuliva e da vedova nera sempre pronta ad approfittare di qualche sventurata preda. Disgustosa risulta anche agli altri membri della gang che spesso la emarginano e ne ignorano qualunque discorso. Eppure, anche in questo caso, Deandra sceglie consapevolmente di restare in quel nucleo di appartenenza legata agli altri da una perversa, morbosa e contorta fratellanza. Anche lei, come gli altri, trova in quell’ambiente il più consono luogo di espressione della sua vera natura.
A completare il quadro sono Mac e Charlie, mentecatti di professione, affetti da gravi turbe e ritardi mentali. Entrambi mescolano bigottismo e blasfemia senza alcuna difficoltà e si avventurano con gli altri in imprese destinate all’inevitabile rovina. I conflitti all’interno della “gang” sono all’ordine del giorno e mettono in luce costantemente il menefreghismo e l’irriverenza di ogni membro.
Il degradato ambiente in cui mettono in atto le loro trovate diventa espressione esteriore della loro contorta e lugubre personalità.
La totale incapacità di applicarsi in qualunque cosa li indirizza verso una vita fatta di continui espedienti e sotterfugi. La loro pigrizia diventa una forma mentis. Il vuoto (lavorativo, emotivo, intellettivo) che attraversa le loro vite viene costantemente ingozzato con le più inutili e assurde attività, inconcludenti per natura. L’horror vacui dell’esistenza di Frank, Dennis, Deandra, Mac e Charlie è riempito di distrazioni, atti aberranti, dionisiache orge (figurate, almeno nella maggior parte dei casi) e crimini veri e propri.
La “gang” diventa così una sorta di carnevalesca combriccola di satiri che molto da vicino ricorda la rappresentazione che del diavolo e del suo seguito fa Bulgakov ne Il maestro e Margherita. C’è un che di dionisiaco nella loro aberrazione. Come infatti Dioniso e le Baccanti si lasciano trasportare dall’ebbrezza e dall’invasamento sovvertendo qualunque ordine costituito e distruggendo chi di quell’ordine è rappresentate (Penteo, re di Tebe nel dramma euripideo) così la gang diventa espressione antisociale della realtà.
Ecco, è forse questo l’aspetto più interessante e degno di approfondimento di C’è sempre il sole a Philadelphia. La sua capacità di mettere alla berlina qualunque aspetto del mondo compreso il più sacro e intoccabile e ribaltare qualunque visione tradizionale. Questa anti-convenzionalità diventa critica violenta all’Occidente secolarizzato. Tanto involontaria nei suoi personaggi quanto ricercata dagli autori della Serie. Tutti quegli atteggiamenti buonisti, tutta quella convenzionalità fatta di perbenismo e comportamenti socialmente accettabili sono destrutturati attraverso un attacco schietto e pungente.
Questo rovesciamento carnevalesco della realtà da Festa dei Folli genera inevitabilmente un effetto comico inarrivabile.
Presentare la normalità dei ragazzi della gang in forte antitesi con la visione tradizionale non può che produrre esilaranti quanto involontarie scene comiche, generate semplicemente dall’essenza di quei quattro personaggi. Il folletto Frank, il manipolatore Dennis, la mangiatrice di uomini Deandra e i due tirapiedi Charlie e Mac non potranno che sconvolgere la vostra visione del mondo, appassionarvi e strapparvi sincere risate. Sempre però con quel retrogusto amarognolo che renderà la visione tutt’altro che leggera e appagante.
Non posso garantirvi che ne uscirete rinfrancati come da una qualunque comedy. Teneramente coccolati in una visione protettiva in cui il lieto fine conclude ogni episodio. No, non posso garantirvelo. Anzi, sono portato a escluderlo. Ma se per una volta volete qualcosa di divertente che contestualmente vi faccia anche riflettere sulle discrasie del nostro mondo, allora confrontatevi senza timore con C’è sempre il sole a Philadelphia. Non ve ne pentirete.