Netflix ha provato ancora una volta a lasciare il segno nel genere prison drama con Cella 211. Ispirata all’omonimo film del 2009, la serie cerca di aggiornare la storia per il pubblico contemporaneo, ma finisce per perdere la tensione e l’impatto emotivo dell’originale. Se da un lato l’ambientazione claustrofobica e il realismo carcerario funzionano a tratti, dall’altro la narrazione appare spesso piuttosto forzata. I personaggi non emergono mai nonostante si presentino bene: il che è un vero peccato. Troppi stereotipi e un livello di azione insufficiente per un prison drama, con il ritmo della serie che fatica a decollare. Cella 211 – che potete recuperare qui – non è un disastro totale, ma lascia molte perplessità. E’ un’occasione sprecata per un genere che, quando ben scritto, sa essere avvincente e ricco di tensione. La nostra recensione.
Cella 211 parte da un contesto narrativo molto promettente che racconta una realtà ai limiti del disagio umano
Cella 211 è tratta dal romanzo omonimo di Francisco Pérez Gandul e racconta la storia di Juan, un avvocato per i diritti umani. Questi si reca nel carcere di Ciudad Juarez per incontrare un suo neo assistito e discutere delle condizioni in cui è detenuto. Sua moglie Helena, incinta, ammira la dedizione del marito, ma con un bambino in arrivo vorrebbe che accettasse un impiego meno rischioso. Questo perché le condizioni delle carceri messicane sono spesso ai limiti del disagio, come viene evidenziato in Cella 211. E infatti, proprio quel giorno, Calancho, il leader della prigione, sta pianificando una rivolta con l’obiettivo di prendere in ostaggio un detenuto di alto profilo: Baldor. Per anni Calancho è stato manovrato da tre figure potenti: 25, il capo del Cartello della Divisione Nord, il direttore del carcere Gandara e il suo vice, Ramirez.
Nonostante il ruolo di esecutore, Calancho non ha mai ricevuto nulla in cambio. Le condizioni di vita disumane nel penitenziario e il conflitto tra la sua banda e quella dei Mostros lo hanno portato all’esasperazione. Nel caos della rivolta, Juan rimane intrappolato all’interno del carcere ed è costretto a fingersi un detenuto per sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi. O almeno questo è il suo obiettivo iniziale. Da qui in poi si scatena, appunto, un caos vero e proprio, anche in termini narrativi. Il punto è che il primo episodio di Cella 211 funziona piuttosto bene, così come la conclusione della prima stagione. Il vero problema è ciò che sta nel mezzo. Una narrazione esagitata che non lascia spazio alle personalità e allo sviluppo di nessuna sotto trama, cosa invece buona e giusta in questo genere. Ed è un vero peccato, perché i personaggi della serie sono molto promettenti, così come gli stessi interpreti.
Cella 211 sembra terreno fertile per una riflessione sulle sue relazioni tra Messico e USA, ma dopo l’episodio iniziale la narrazione entra in una fase di stallo
La storia di Juan e l’approfondimento delle dinamiche interne al carcere catturano subito l’attenzione. Così come l’intreccio di poteri che regolano il penitenziario e i suoi legami con il mondo esterno. Tuttavia, la narrazione ben presto si annulla in favore di un ritmo smodatamente e inutilmente vertiginoso. I personaggi sembrano girare in tondo senza un reale sviluppo e quella che inizialmente era una minaccia tangibile rappresentata da Calancho e 25 si affievolisce progressivamente. Ne viene fuori uno svolgimento fiacco, con tre episodi che lasciano il tempo che trovano, prima che Cella 211 riesca a riprendersi un po’ verso il finale. Ma analizzando l’epilogo anche qui emergono diverse perplessità. Innanzitutto, la trasformazione di Juan è decisamente una forzatura. Già di per sé il fatto che fin dall’inizio non cerchi di restare nell’ombra durante la rivolta è paradossale: ma il peggio arriva in seguito alla sua perdita.
Dopo la morte di sua moglie, Juan si trasforma improvvisamente in un guerrigliero in cerca di vendetta. Sposa automaticamente la filosofia di Calancho e della sua gente pur appartenendo a un ceto sociale di tutt’altra natura. E questo è decisamente troppo, anche se ci sforzassimo con la fantasia. Ma Juan non è l’unico a farci storcere il naso. La rivalità tra 25 e Calancho, per esempio, rimane appena abbozzata. Il leader del carcere è un personaggio forte ed è evidente che abbia una bella storia da raccontare, ma questa strada non viene minimamente sfruttata. Calancho riesce comunque ad essere un catalizzatore in Cella 211, ma forse è proprio lui il più grande rimpianto della serie. Sempre in relazione all’epilogo, la cosa più assurda riguarda Baldor. Il tanto ricercato detenuto speciale non viene sfruttato per niente: il mistero attorno ai file contenuti nel suo computer resta irrisolto.
Il mancato sviluppo dei personaggi non è l’unico problema di Cella 211: lo svolgimento è pieno di scelte narrative più che discutibili
Il momento in cui Juan viene incaricato da Calancho di amputare il braccio di Baldor per vendetta non ha alcun senso logico. Si tratta di una sorta di rito di iniziazione, in teoria, con Calancho che va di fatto a far capire a Juan che è l’unico di cui si fida davvero. Ma è proprio l’azione i sé a non quadrare. Poco dopo, infatti, lo stesso leader dei rivoltosi si preoccupa di mantenere in vita Baldor, che effettivamente è l’unico motivo per cui lui è ancora vivo. Insomma, la confusione nella testa di Calancho, in seguito all’assassinio di sua sorella – e anche qui si potrebbe discutere sul modus operandi un po’ troppo fantasioso – è la stessa confusione che finisce per provare lo spettatore. La cosa più grave per un drama di questo tipo, però, riguarda la totale assenza di personalità nei villain. O meglio, in Cella 211 i villain è come se non ci siano proprio.
Tutti troppo sfuggenti, quasi invisibili. Restano nascosti nell’ombra dall’inizio alla fine come se, per presupposizione, il pubblico debba già sapere chi sono e quanto sono loschi e pericolosi. A volte, a dirla tutta, sembra quasi che Calancho e i suoi combattano contro i fantasmi (oltre che con la gang rivale, da 3 in pagella). Al di là delle considerazioni sulla scrittura, il problema principale della serie resta il ritmo. Cella 211 sembra sempre sul punto di svoltare in positivo: la tensione spesso si concentra come quando sta per esplodere una bomba. Ma poi niente. Il nulla. Anche le scene di sommossa, che dovrebbero risultare caotiche e adrenaliniche, finiscono per apparire confuse. Pur ambientandosi interamente in una prigione sporca e claustrofobica – aspetto per cui il lavoro di scenografia e costumi è senza dubbio meritevole – la serie non riesce mai a far sentire lo spettatore immerso in questa realtà ostile e opprimente. Non sappiamo ancora se Cella 211 avrà un seguito, più per demeriti che per opportunità narrative. Ma, fino a ora, sono molte di più le perplessità che le convinzioni.