Che posto è mai questo!
Jerusalem’s Lot
Continua a stupirmi… e così le reazioni della gente del più vicino villaggio al fatto che io abbia preso possesso
della casa. È uno strano paesino dal pittoresco nome di Preacher’s Corners […] «La credono pazzo,
signor Boone!» Ho riso e ho risposto che forse avevano sentito parlare dell’attacco di meningite di cui avevo sofferto dopo la morte della mia Sarah. Ma Cal ha assicurato che nessuno sapeva niente di me se non attraverso mio cugino Stephen, il quale contrattava per gli stessi servizi che io ora ho fatto in modo di assicurarmi. «È stato detto, signore, che chiunque decida di vivere a Chapelwaite dev’essere pazzo, oppure corre il rischio di diventarlo.
Nel 1978, sulla scia del grande successo di Shining, Stephen King dà alle stampe una raccolta di racconti inquietanti, oscuri e a tratti onirici, chiamata “Night Shift” (in italiano “A volte ritornano”). Una raccolta di storie già pubblicate tempo prima sulla rivista Ubris, con la quale King collaborava regolarmente, più altre del tutto inedite: Jerusalem’s Lot, Quitters, Inc., L’ultimo piolo e La donna nella stanza. Si trattava della prima raccolta di racconti dell’autore, molto legato al modello della storia breve che ripropone ogni tanto riunendo racconti sparsi magari scritti nel corso degli anni. “Night Shift”, come suggerisce il titolo, fa riferimento proprio a quel turno di notte che coincide con l’ora delle streghe, un momento in cui il tempo sembra fermarsi e ogni incubo può prendere vita. I protagonisti di questi racconti, infatti, hanno a che fare con fatti inspiegabili, con orrori a lungo sopiti e con l’oscurità che si trascina lenta ma inesorabile mentre tutti quanti dormono. Insomma, siamo di fronte a racconti ricchi e vividi, pregni di quella scrittura eclettica che contraddistingue il re dell’orrore. Stephen King è d’altronde, proprio in virtù del suo stile e della sua narrazione, uno degli autori più adattati al cinema e nelle serie tv. Il suo stile, però, se da un lato si presta bene all’adattamento, dall’altro poi non è così semplice nella pratica. Le parole di King funzionano sulla carta stampata perché si nutrono dell’immaginazione del lettore, un’immaginazione che finisce per essere vincolata a determinate regole non scritte quando si passa al medium televisivo o filmico. Quello che vedo sullo schermo è quello che c’è, non esistono le riflessioni silenziose, i pensieri muti o la voce narrante che arricchiscono le pagine di King.
Per questo motivo, nelle maggiore parte dei casi, gli adattamenti dalle opere dello scrittore ci appaiono monche (soprattutto agli appassionati), prive di quel qualcosa di unico ritrovabile solo nei libri. Se casi come La storia di Lisey, It o Misery sono riusciti a rendere omaggio all’opera originale, altri come Pet Sematary, hanno miseramente fallito. Dove si colloca allora Chapelwaite in questo quadro? Innanzitutto, forse i più grandi estimatori di King non avranno capito dal primissimo momento che Chapelwaite non è altro che l’adattamento del racconto Jerusalem’s Lot. Persino io che ho scritto una tesi sul re, non ho colto il collegamento prima di iniziare lo show.
Un collegamento che, a ben vedere, rimane davvero a livello molto superficiale dato che, a parte il protagonista, tutto in Chapelwaite è stato radicalmente modificato rispetto al racconto.
Egli vive ancora in qualche punto dei meandri contorti e senza luce al disotto di Jerusalem’s Lot e di
Jerusalem’s Lot
Chapelwaite: Esso vive tuttora. L’incendio del libro Lo ha contrariato, ma ce ne sono altre copie.
Tuttavia, io sono la porta, la via d’accesso, e sono l’ultimo del sangue dei Boone. Per il bene di tutta l’umanità
debbo morire… e spezzare la catena per sempre.
Il racconto contenuto all’interno della raccolta A volte ritornano fungeva da prequel al ben più noto romanzo Le notti di Salem, personale incursione di Stephen King nel genere vampiresco. Nel racconto, però, nessuna traccia dei succhisangue mentre il protagonista Charles Boone deve vederla con una minaccia decisamente più onirica e lovercraftiana. Proprio al grande H.P. Lovercraft, King ha deciso di ispirarsi, senza nasconderlo, per la storia del racconto. La storia, narrata attraverso l’uso di lettere e missive, ha inizio quando Charles Boone e il suo domestico Calvin McCann giungono a Chapelwaite, dove il primo ha ereditato una grande casa dal defunto cugino Stephen. Nella cittadina, però, i due non sono accolti di buon grado e ben presto scoprono il perché. La famiglia Boone è, apparentemente, vittima di una maledizione legata alla vicina cittadina di Jerusalem’s Lot e al grimorio dal titolo inquietante De Vermis Mysteriis (“I misteri del verme”). Inizialmente scettico, Charles si renderà conto del legame di sangue che lega lui e tutti i membri della sua famiglia al libro e del passato oscuro che li riguarda.
Dove Jerusalem’s Lot affonda a piene mani nelle creature cosmiche e mostruose tanto care a Lovercraft, Chapelwaite opta per i più classici vampiri.
Già da qui è evidente l’enorme differenza tra racconto e serie tv ed è proprio questa differenza a rendere lo show banale e senza inventiva. Il tema dei vampiri è uno dei più gettonati e strabusati al cinema così come nelle serie tv. C’è stato un intero periodo storico in quegli, ormai lontani, anni 2010 in cui i vampiri erano tornati di moda ma la situazione ultimamente è molto diversa. Il problema legato a queste creature è che sono state raccontate in tutti i modi possibili, diventando inevitabilmente fuori moda e “noiosi” da vedere. Eccetto alcune sparute eccezioni, i vampiri non intrigano più come un tempo e, di certo, Chapelwaite non aggiunge nulla di nuovo a una minestra ormai cotta.
La tara familiare, la maledizione dei Boone, l’inquietante cittadina di Jerusalem’s Lot e l’ottusità degli abitanti di Chapelwaite catturano l’attenzione dello spettatore per i primi tre episodi, salvo poi perdersi completamente nel momento in cui vengono inseriti i vampiri. Inesistenti nel racconto originale. Il sottile confine tra superstizione e follia è un elemento che non trova evoluzione nello show. La narrazione procede lenta, ripetitiva, introducendo personaggi sterili e dialoghi al limite del sopportabile. Un grande peccato perché Chapelwaite aveva davvero tutte le carte in regola per piazzarsi quale serie tv horror degna di questo nome. Del resto, aveva dalla sua un protagonista d’eccezione come Adrien Brody che regala una grande performance pur con i pochi mezzi a disposizione.
La trama dello show parte dalla stessa premessa: Charles Boone eredita un’enorme casa a Chapelwaite e decide di trasferirvisi ignaro dell’oscurità celata in quel luogo. A cambiare è tutto il resto. Non abbiamo più il fedele domestico Calvin ma tre figli al seguito, più fonte di guai che di aiuto. Viene inserito un personaggio femminile, interesse amoroso per Charles ma il loro amore è condannato prima ancora di sbocciare. Il fanatismo religioso degli abitanti c’è e soddisfa, per quanto portato ai limiti dell’assurdo. Così come viene mantenuta la presenza del libro demoniaco, origine della follia dei Boone. Il problema di Chapelwaite è che esiste un momento di stacco percepibile ma invisibile che divide un inizio di stagione pieno di promesse e aspettative da un proseguo privo di verve e stanco. Perché, se già il tema dei vampiri risulta una scelta opinabile e poco furba, anche il modo in cui viene affrontato annoia, in un crescendo, puntata dopo puntata. Lo spettatore arriva al finale di stagione provato, non riuscendo a godersi pienamente una chiusura anche commovente ed emozionante.
Il sacrificio di Charles Boone rappresenta il momento più alto di tutta la serie tv chiudendo un cerchio e portando a termine il viaggio di questo eroe tormentato.
Charles decide di assumersi tutto il carico della maledizione, rinunciando all’immortalità dell’anime e venendo trasformato in un mostro. A motivarlo c’è l’amore per i suoi figli, che vuole salvare a tutti i costi da un destino segnato. Per tutto il corso dello show è proprio il personaggio di Charles Boone a rappresentare una luce di speranza per gli abitanti di Chapelwaite, che mal lo accolgono, e per noi poveri disgraziati spettatori che continuiamo la visione in attesa di qualcosa. Quel qualcosa è Adrien Brody.