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Ma perché gli attori degli anni Ottanta sembravano molto meno giovani di quello che erano?

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A quanti di voi è capitato almeno una volta di guardare una foto dei vostri genitori da giovani e pensare che non dimostrassero l’età che avevano? Oppure di guardare una serie tv degli anni Ottanta e pensare che tutti i personaggi sembrassero più anziani di quello che erano? A gran parte di voi, ne siamo certi. E quelli che non l’hanno mai pensato inizieranno a pensarlo dopo aver letto questo articolo. Il fenomeno, infatti, non è legato solo a una vostra sensazione: presenta basi scientifiche piuttosto solide, seppure sfumate talvolta da fattori semiseri. E risposte multiple che determinano una tesi chiara: le persone del passato ci sembreranno sempre più anziane di quello che erano in quel momento. Visto che il pezzo nasce dalla visione del sottoscritto di una serie tv di quarant’anni fa, Cheers (conosciuta in Italia col nome Cin Cin), e da una certa impressione provata nel prendere atto che alcuni degli interpreti avessero un’età vicina o addirittura identica alla sua, abbiamo deciso di esplorare il fenomeno per rispondere una volta per tutte a una domanda che molti si fanno da una vita.

L’esempio di Cheers è più che calzante, visto il tema dell’apparente “invecchiamento” delle persone del passato è stato spesso affrontato prendendo come spunto la serie tv.

Cheers, in onda dal 1982 al 1993, è considerata un po’ da tutti una delle migliori sit-com di sempre, ha donato popolarità a tanti attori ancora oggi molto conosciuti dal grande pubblico (basti pensare a Ted Danson, Rhea Perlman e Woody Harrelson, giusto per citare tre tra i casi più noti) e ha condizionato non poco la serialità degli anni Ottanta e le sit-com delle generazioni successive. Per dire: pensate che la travagliata storia d’amore tra Ross e Rachel in Friends, un’odissea sentimentale andata avanti per la bellezza di dieci stagioni, sia stata la prima in tal senso? Assolutamente no: i nostri due amici, infatti, sono in qualche modo “fratelli minori” di Sam Malone e Diane Chambers, protagonisti delle prime stagioni di Cheers e di una storia d’amore a dir poco tormentata che ha coperto un lunghissimo arco narrativo tra infiniti ostacoli e assurdi tira e molla. Ma non è questo il tema dell’articolo, il punto è un altro: osservate per un attimo la foto di copertina in cui abbiamo riportato le età degli attori nel corso della prima stagione di Cheers, e provate a dire che dimostrassero gli anni che avevano.

Non sarebbe corretto parlare del primo da sinistra, l’allora cinquantottenne Nicholas Colasanto: l’attore, purtroppo, aveva già degli importanti problemi di salute che lo portarono a lasciarsi prematuramente tre anni dopo, nel 1985. Ma gli altri? Davvero George Wendt e John Ratzenberger, il secondo e il terzo della fila in alto, avevano rispettivamente 34 e 35 anni? Davvero Rhea Perlman, la terza in basso a destra, aveva la medesima età di Wendt? Pur con tutto il rispetto e la delicatezza che si devono a un argomento del genere, riuscireste mai a immaginare oggi dei trentacinquenni del genere? E non parliamo di persone che curano maniacalmente il proprio aspetto: chi vi scrive in questo momento, per esempio, non è uno di quelli e ha oggi la stessa età, ma è comunque un normalissimo trentaquattrenne che dimostra tra i dieci e i quindici anni in meno rispetto a loro. Rimanendo all’interno dei confini di Cheers, facciamo un ultimo esempio: nella foto che segue Kelsey Grammer, l’iconico interprete di Frasier Crane, aveva 29 anni. Eccolo:

L’avreste mai detto? Obiettivamente no. E non è nemmeno giusto sentirsi maliziosi nel pensarlo: è più che normale. Così come è normale accentuare il divario tra l’età effettiva e quella percepita se si va più indietro nel tempo, andando invece a restringerla nel caso di produzioni più recenti. Citiamo ancora Friends, andata in onda per la prima volta dodici anni dopo Cheers: quanti anni dareste ai protagonisti della sit-com? Probabilmente, un’età più vicina a quella reale. Molto più vicina.

Ma perché? I protagonisti di Cheers curavano meno l’aspetto degli altri, al punto da rievocare la celebre linea del Compagni di Scuola di Verdone dedicata al povero Fabris, quello che “sembrava suo zio”?

Ovviamente no: loro non hanno alcuna responsabilità: chi più chi meno, tutti dimostravano l’età che avevano in quel momento. Il “problema”, sempre che di problema si tratti, siamo noi. Almeno in parte. Noi e la nostra percezione delle cose, inglobabili in un singolo concetto: il “retrospective aging”.

A tal proposito, prendiamo in esame uno dei migliori approfondimenti disponibili sul tema: un video postato un anno fa dall’educatore statunitense Michael Stevens, noto youtuber che conta oltre venti milioni di iscritti sul canale Vsauce. Stevens ha analizzato il fenomeno con un presupposto essenziale: una buona parte delle motivazioni si legano a noi, più che ai soggetti dall’età “sballata”. Perché è vero, oggi tendiamo a invecchiare più lentamente rispetto ad alcuni decenni fa: l’utilizzo di cosmetici e creme varie (in particolare le creme solari), l’evoluzione dell’odontoiatria, la nutrizione, il lifestyle generale, le mutate abitudini col fumo e vari altri aspetti hanno rallentato sul serio il processo globale di invecchiamento. Sì, ma quanto? Poco, meno di quello che sembra. Come evidenzia giustamente lo stesso Stevens, i 60 non sono diventati i nuovi 50. almeno su un piano estetico: sono diventati al massimo i nuovi 57. I 40 i nuovi 30? Macché, 37. Allora cosa è successo? Perché condividiamo col mondo una percezione tanto radicata? Perché ci spaventa l’idea di avere la stessa età che aveva George Wendt quarant’anni fa?

Perché sentirci più vecchi non piace, banalmente. Ma visto che l’argomento non è affatto banale, andiamo oltre: la “retrospective aging”, l’idea inconscia che le persone del passato sembrino più anziane rispetto alla realtà dei fatti, si connette al mutamento delle tendenze estetiche. In sostanza: George Wendt, nel 1982, era un normalissimo trentaquattrenne, e se oggi non sembra più tale è perché tutto è cambiato nel tempo intorno all’istantanea di un mondo che non esiste più. Per dimostrarlo, qualcuno sul web ha fatto un piccolo esperimento: come si presenterebbe oggi il Norm di Cheers? Più o meno così:

Ecco, la situazione è già diversa: il terzo da sinistra è un credibile trentaquattrenne di oggi. Così come le “golden girls” di un’altra iconica sit-com degli anni Ottanta ci sarebbero sembrate molto più giovani con un taglio di capelli al passo coi nostri tempi. Basta così? È solo una questione di look? No, affatto. Prendiamo in esame un altro fattore: gli outfit. Provate a immaginare l’ultimo Norm con abiti oggi ritenuti più giovanili: cosa cambierebbe? Tutto. E in tal senso, è funzionale l’esperimento involontario fatto per decenni dall’insegnante Dale Irby, fotografato per quarant’anni coi medesimi abiti. Il risultato? Eccolo:

Beh, le cose sono due: o il professore utilizzava un vestiario vetusto da giovane, oppure c’è qualcosa che non va. Anzi no: va tutto bene. Anche questa è una questione di percezioni e di mutamenti del mondo: quarant’anni prima, infatti, l’uomo si vestiva come si sarebbe vestito un qualunque altro uomo della sua età. Ma nella nostra testa si innescano delle associazioni mentali che porteranno sempre a considerare quegli abiti inadatti a una persona giovane. Così come facciamo tutti noi quotidianamente: ricerchiamo tante delle nostre certezze all’interno di meccanismi radicati che determinano una tendenza a seguire in qualche modo – pur con gli adattamenti fisiologici dettati dalle mode del tempo – quello che si sceglieva negli anni della gioventù. Così da sentirci sempre un po’ più giovani di quello che siamo effettivamente, dopo una certa età. Le associazioni inconsce vanno ben oltre questo. Nel corso della sua lunga analisi, Stevens evoca per esempio le connessioni tra un certo volto e un certo nome: avere “una faccia da Antonio o da Andrea” è provato scientificamente dal cosiddetto “face-name matching effect“. Un fenomeno strettamente legato al “Dorian Grey effect”, una sorta di profezia “autoavverata” che porta chi si chiama Antonio a comportarsi ed evolversi come ci si aspetterebbe che faccia un vero Antonio.

Sembrano una marea di sciocchezze, ma le affermazioni presentano delle basi concrete che necessiterebbero di un approfondimento a parte. Stevens, infatti, si spinge ancora oltre, arrivando a parlare dei sogni in bianco e nero delle persone di una certa età e del celeberrimo viaggiatore del tempo sul ponte di South Fork. Detta così potrebbe non dirvi niente, ma sarà sufficiente una foto per accendere una lampadina. L’avevate mai vista?

Probabilmente sì: la foto, scattata in Canada nel 1941, è a dir poco curiosa per via della presenza di un uomo, quello con gli occhiali da sole, che sembra provenire dai nostri giorni per via del suo particolare look, stonante con quello che ci aspetterebbe da una persona di quel tempo. Il presunto hipster ha davvero viaggiato nel tempo? Chiaramente no. Nonostante si sia dimostrata la veridicità dello scatto, ognuno degli elementi è spiegabile ma resta un’idea di fondo: la nostra percezione fa ancora una volta la differenza. Così come in futuro una foto scattata oggi potrebbe presentare qualcuno che sembrerà provenire dal loro tempo e non dal nostro. Cosa significa tutto ciò? La questione dell’età errata riscontrata in soggetti di quarant’anni fa e oltre si lega alla nostra forma mentis, più che a fattori esterni. E risolve così il quesito iniziale, portandoci a una considerazione finale: l’inconscio ci porterà sempre ad “allontanare” da noi stessi un’idea di “anzianità”, come certifica l’ultimo dato riportato da Stevens. Un dato che mostra la presunta soglia d’avvio della terza età: secondo le statistiche, si arriva a 73,7 anni di media. Le persone sotto i 65 anni hanno detto 71, quelle sopra i 65 hanno detto 77. E ancora: quanti anni vorrebbero avere i soggetti interpellati nel sondaggio? Sotto i 21 anni se ne vogliono avere di più, sopra se ne vogliono avere meno. 40 anni? 30. 60? 40. 90? 60. Quale età si vorrebbe avere per sempre? 36.

In definitiva, è per noi confortevole pensare che i protagonisti di Cheers sembrassero meno giovani di quello che erano: farà sentire noi tutti un po’ più giovani. E in effetti lo siamo, ma non più di tanto. La questione è suggestiva e potrebbe spingersi oltre questi elementi di riflessione, però è il caso di fermarsi qua. Con una nota personale: esiste una foto fantastica del padre del sottoscritto in cui celebra la conclusione del servizio di leva in compagnia di un gruppo di amici. Sì, i suoi vent’anni mostrano sul volto un’apparente età più matura rispetto a quella che si potrebbe immaginare oggi per un suo coetaneo (oggi sembra invece più giovane, ma magari ne parleremo un’altra volta), con un impagabile sorriso stampato sul volto: un sorriso senza tempo, al di là di ogni possibile apparenza. E allora mettiamo da parte ogni cervellotica considerazione sulle fasi della vita per come apparivano ieri e per come appaiono oggi: come direbbe la saggia Corinna Negri, ognuno “ha gli anni che ha” e chi se ne frega del resto. Se poi si frequenta un locale in cui tutti “conoscono il tuo nome”, la vita può diventare ancora più divertente. E l’età un dettaglio quasi insignificante.

Antonio Casu