ATTENZIONE: questo articolo su Johnny Lawrence contiene spoiler sulle quattro stagioni di Cobra Kai.
Colpisce forte, Johnny Lawrence, specie quando qualcuno vuole mandarlo al tappeto. Strike first, strike hard, no mercy. Colpisci per primo, colpisci forte, nessuna pietà. È il motto stampato nella carne di chi ha bisogno di buttarsi nella mischia senza pensarci troppo, la materia di cui è plasmato il credo di chi vive la vita come una lotta, la sconfitta come una sua negazione. Se è vero che il miglior attacco è la difesa – presupposto sul quale il Miyagi-do ha pazientemente costruito tutta la sua filosofia -, è altrettanto vero che la miglior difesa è l’attacco. Il cobra, quando percepisce il pericolo o la minaccia, salta su e aggredisce. Non aspetta di essere colpito, colpisce lui un attimo prima. È una questione di istinto, una forma di difesa. Johnny Lawrence la pratica da quando era ragazzino. L’unico modo che conosceva per rispondere alla rabbia era darle sfogo. La legge del pugno, la chiama il sensei Kreese. Ma forse, più banalmente, è uno stratagemma per non finire distrutti, annientati. Dalla vita, soprattutto.
Johnny ha sempre rappresentato il volto del male, del cattivo, in una contrapposizione farlocca tra i due opposti poli del bene e del male che negli anni Ottanta andava parecchio di moda. The Karate Kid ha provato a riscattarlo nel finale, ma non abbastanza da cancellare l’onta, la vergogna, l’antipatia che per trent’anni si è trascinato dietro come una zavorra.
Era un personaggio nato per essere l’antagonista, il giovane Johhny Lawrence. Il rivale, l’antieroe per eccellenza costruito per un mondo che invece andava matto per gli eroi. Daniel-san era il buono, quello per cui tutti facevano il tifo. Lui, Johnny, il ragazzetto irritante che meritava la sconfitta. È così che ne è uscito, dagli anni Ottanta: come lo sconfitto, il perdente. L’eterno numero due. A trent’anni di distanza da quel calcio in faccia – da qualcuno ritenuto scorretto – Johnny fa ancora fatica a rialzarsi, a rimettersi insieme pezzo dopo pezzo. È con la faccia a terra che lo ritroviamo nelle prime scene di Cobra Kai, così come lo avevamo lasciato. Scorbutico, selvatico, taciturno e ubriaco. Soprattutto ubriaco. Johnny Lawrence non si è mai rialzato del tutto dal tappeto rosso dell’All Valley. Ha barcollato fino a diventare un fallimento completo. Trent’anni dopo il liceo, non ha ancora una moglie, non ha ancora una famiglia, un lavoro, un progetto. Vive alla giornata, rintanato, nell’ombra, allergico al contatto con le persone.
Johnny Lawrence è un fallito. Ha iniziato ad esserlo nel momento esatto in cui Daniel Larusso lo ha messo con la faccia al tappeto.
Con suo figlio non ha funzionato, un fiasco totale. La sua vita lavorativa neppure esiste, si accontenta di sopravvivere un giorno per volta. Magari meglio se non da sobrio. Ma ogni sconfitta, ogni fallimento, è il lascito di quell’incontro di karate da cui non è uscito più lo stesso. Johnny si è perso nella sconfitta, ci è annegato dentro senza avere nessuno che gli lanciasse un salvagente. Rabbia e frustrazione l’hanno logorato dall’interno, corrodendo la parte sana, quella parte buona che pure c’era, sebbene nascosta, meno visibile. Quando sei il numero due, nessuno è disposto a perdonarti le mancanze, a concederti una seconda chance. I riflettori sono tutti per il vincitore, l’eroe buono che riscatta i deboli e gli indifesi. Ma anche Johnny Lawrence era debole e indifeso, solo che nessuno ha voluto offrirgli una possibilità nuova. Così si è trascinato per altri trent’anni all’ombra del grande Daniel Larusso, il campione integerrimo che intanto è diventato ricco e popolare.
Ci vuole coraggio ad essere un numero uno, questo è vero. Ma tanto più coraggio ci vuole per essere il numero due, lo sconfitto, il perdente.
Sempre la seconda scelta, il rottame, il caso perso. Johnny ha finito col sentirsi un numero due. Così quando ha aperto il suo dojo, si è sentito subito insicuro, inferiore, non all’altezza. John Kreese è riuscito a infilarsi di nuovo nella sua vita, scippandogli il Cobra Kai e alcuni tra i suoi migliori allievi. E Daniel, l’eterno rivale, è tornato a mettergli i bastoni tra le ruote, prima con la palestra, poi con il torneo, infine con Robby. Il peggior incubo del passato di Johnny è tornato ad assillarlo anche nel presente. Non è tanto la rivalità con Daniel-San a scombussolarlo: è lo stare difronte a chi ti ha battuto che ti costringe a guardare in faccia te stesso, il tuo essere un perdente. Non è con Daniel che deve imparare ad andare d’accordo, il sensei Lawrence, quanto piuttosto con se stesso.
Quello che ha distrutto davvero Johnny Lawrence non è l’esser stato messo al tappeto dall’odiato avversario, bensì l’aver dovuto silenziare gli scrupoli, l’esser dovuto scendere a compromessi con la propria coscienza, con la propria natura.
Mettere a tacere la parte buona per dar spazio a quella priva di remore. È un travaglio attraverso cui Daniel-San non è dovuto passare, un tormento che lui non ha conosciuto, che non l’ha perseguitato per trent’anni. Anche nella quarta stagione di Cobra Kai, Johnny è quello che viene sempre messo da parte, nell’ombra. I sensei uniscono le forze, ma è al Miyagi-do Karate che i ragazzi si allenano. Quando una delle due linee di pensiero deve prevalere, nessuno scommette su quella degli Eagle Fang. Quando irrompe sulla scena, Terry Silver neppure si preoccupa di rivolgersi a Johnny: parla con Daniel, perché è lui il centro di tutto, il campione da battere. Johnny parte sempre in svantaggio, per allinearsi con il resto del mondo deve sudare il doppio.
Cobra Kai ci spinge a cambiare prospettiva, a gettarci dalla parte opposta. E, a guardarlo meglio, Johnny Lawrence sembra in fondo un uomo solo, ammantato di quella solitudine dei numeri due che ti spinge alla disillusione, alla frustrazione, alla perdita di fiducia. Ma Johnny non è solo questo e piano piano qualcuno ha iniziato ad accorgersene. È anche una prima scelta, il sensei Lawrence. Lo è stato per Carmen Diaz, ad esempio, che lo ha scelto proprio per quello che è. Lo è stato per Sam Larusso, cha ha cercato il suo dojo per trovare se stessa e il suo personalissimo stile. Lo è stato per i ragazzi dell’Eagle Fang, che lo hanno seguito dopo il Cobra Kai e dopo l’esperienza al Miyagi-do. E lo è stato infine per Miguel che, se avesse potuto, lo avrebbe scelto addirittura come padre. Johnny è l’antieroe che è riuscito a trasformare ragazzini nerd in professionisti del karate, cavando fuori da ognuno di loro una sicurezza che altrimenti non avrebbero mai trovato. Ha creato qualcosa, con le sue stesse mani di perdente. Ha messo i suoi allievi davanti alla competizione, alla lotta, alla sconfitta. Ma ne ha tratto anche qualcosa di buono.
È questo che hanno di bello i numeri due: la loro vita è tanto più entusiasmante perché si misurano ogni giorno con la sconfitta e tentano di rialzarsi, giorno dopo giorno. La loro esistenza è una lunga, stremante salita durante la quale devono sudare più degli altri per conquistarsi il rispetto. Perdono i pezzi per strada e arraffano speranze qua e là. Sono scettici e disincantanti, colpiscono per primi per non farsi male ma, sotto sotto, seminano ottimismo e raccolgono riconoscenza. Anche quella dei numeri uno. Bentornato nell’arena, sensei Lawrence.