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Copenhagen Cowboy è audace, seducente e avvolgente

Copenhagen Cowboy
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Gabbie di maiali che sgrufolano e grugniscono mentre lì accanto si attua una violenza perfino più efferata e innaturale, tipica dell’essere umano. Così si apre Copenhagen Cowboy, opera del regista danese Nicolas Winding Refn per Netflix, che ci tiene a precisare fin da subito l’animalità intrinseca dell’uomo. D’altronde un altro autore lo aveva già sottolineato prima di lui, con estrema veemenza: quel certo George Orwell e il suo libro “La fattoria degli animali”.

A opporsi a questo regime di uomini-maiali è Miu, eroina misteriosa dei sei episodi che compongono questa serie tv noir targata Netflix. Muovendosi a metà tra una vigilante senza mantello (un po’ come il Pilota di Drive) e una dantesca viaggiatrice dei gironi infernali, Miu incrocia sul suo cammino una molteplicità di personaggi strani, inquietanti e violenti, quasi totalmente disumanizzati.

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Miu e i maiali (640×427)

L’arrivo di Miu giunge inaspettato e all’improvviso.

Non sappiamo nulla della ragazza se non brandelli di informazioni che ne tratteggiano un ritratto affascinante e misterioso. Prima di venire comprata da una mafiosa serba, Miu è stata abbandonata nella neve da neonata e poi venduta agli extraterrestri (?). Queste informazioni, unite alla curiosa capacità di portare fortuna rendono Miu un essere quasi sovraumano, che si eleva metaforicamente parlando rispetto a tutti gli altri personaggi dello show. Di poche parole, la ragazza non parla quasi mai e quando lo fa si limita per lo più a parlare per enigmi o a proporre curiosi accordi e patti ai suoi interlocutori. Rossella, la mafiosa serba, la compra per tenerla accanto a sé nel tentativo di rimanere incinta nonostante il fratello sia contrario. Ben presto il dono si Miu si rivela nel suo duplice agire: la fortuna è riservata a coloro che se la meritano, a coloro che si sono presi cura di Miu e che in tal modo vengono ricompensati.

Il noir, creato da Nicolas Winding Refn e disponibile su Netflix, raccoglie così l’eredità del folklore più antico e magico, quello legato alla ricompensa e alla punizione. Insomma quello, per citarne un paio, che rimanda alla favola di Tremotino, dei tre ometti nel bosco e della casa nella foresta. Anche in Copenhagen Cowboy, seppur con quel tocco caratteristico del regista, i personaggi che Miu incontra nel suo viaggio subiscono una sorte differente a seconda che le arrechino gioia o dolore. Lei stessa incarna, volendo usare ancora il mondo favolistico come punto di riferimento, i ruoli di protagonista e di aiutante insieme. Miu non combatte solo per se stessa ma anche per le persone che sono state gentili con lei. Da questo punto di vista, la ragazza mite e silenziosa veste anche i panni del vigilante, con tanto di completo blu a sottolinearlo come fosse la tuta di Superman.

Copenhagen Cowboy riprende diversi dei fili che tengono insieme le opere del regista: la presenza di pochissimi dialoghi, l’utilizzo di colori forti e vibranti (in questo caso il rosso, il blu e il viola), gruppi sociali circoscritti e quelle maledettamente belle luci a neon.

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Angela Bundalovic (640×360)

Come una fiaba noir e moderna, Copenhagen Cowboy avanza all’interno di uno spazio magico arricchito da metafore e tropoi più o meno evidenti. Su tutti spicca prepotentemente il dittico uomo-maiale e il modo in cui i due elementi entrano in relazione l’uno con l’altro. Se da un lato, infatti, gli sgrufolanti suini sono utilizzati dai criminali come un mezzo per sbarazzarsi dei cadaveri, dall’altro rappresentano simbolicamente l’avidità di quegli stessi gangster, mafiosi e corrotti che Miu deve di volta in volta affrontare. Passiamo così dal serbo Andre che gestisce un giro di prostituzione al cinese Mr. Chiang affetto da emicranie, in mezzo troviamo il killer Nicklas e i suoi modi disturbanti. Pur rimanendo distanti all’interno della trama, tutti e tre incontrano un uguale destino dopo l’incontro con Miu. Inoltre, il connubio maiale-uomo risulta ancora più evidente a livello sonoro, dato che diversi personaggi maschili grugniscono anziché parlare (come Sven, il marito di Rossella).

Nell’Inferno dantesco, i golosi, secondo la legge del contrappasso, sono immersi completamente nel fango e nella melma come i maiali che sono stati in vita. E anche la maga Circe, nell’Odissea, utilizza il maiale come trasformazione ideale per gli uomini che le sono nemici. Il folklore e la mitologia sono, insomma, bacini di immaginari infiniti dai quali Nicolas Winding Refn non può che pescare a piene mani, come lui stesso ha ammesso.

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Niklas (640×360)

Una narrativa, quindi, che ha bisogno di pochissime parole e che punta tutto sulle immagini, sulla forma. La rappresentazione estetica diventa nella serie tv, così come in numerosi altri progetti del regista da The Neon Demon a Solo Dio perdona, il mezzo ultimo per trasmettere messaggi specifici: la bestialità umana, il torbido, l’anima oscura, la violenza.

Così il bel giardino che rifiorisce grazie a Miu si alterna a mattatoi grigi e rumorosi, a nightclub peccaminosi e a case piene di luce in cui si consumano dialoghi incentrati su protesi di pene. Sono visioni che provengono dalla psiche di NWR e che lo stesso regista decide con sapiente maestria, la stessa che lo ha reso uno dei migliori cineasti dei nostri tempi, di regalarci attraverso luci, spazi claustrofobici e inquadrature stranianti. Miu coperta di fiori, promessa della Primavera, è l’immagine speculare del corpo mutilato di Niklas, incubo dell’Autunno quando “cade la ghianda che fa ingrassare il porco”.