Ogni angolo del nostro mondo è già stato attraversato da centinaia, migliaia, forse anche milioni di persone che ne hanno abitato, vissuto, consumato ogni anfratto per infinite particelle di tempo. Fermiamoci a riflettere su questo concetto: la minuscola porzione di universo che stiamo abitando in questo istante è già consunta dall’usura di tantissime persone, vissute prima di noi. Tra noi e loro c’è un sottilissimo eppure impenetrabile velo che ci separerà per sempre, rendendoci solo possibile immaginarle o ricordarle: il tempo. Questo concetto si è aperto nella mia mente rivedendo Dark 1×03, Passato e presente, e non riesce ad abbandonarmi: come i personaggi inconsapevolmente coinvolti nell’infinito giro di ruota del tempo, non riesco a smettere di domandarmi quali fantasmi stanno abitando la mia porzione di universo, a infiniti anni di distanza o a pochi giri di orologio.
Nella terza puntata della prima stagione di Dark seguiamo Mikkel, appena uscito dalla caverna in cui si è fatalmente perso, che esplora quella che diventerà la sua nuova realtà: gli anni Ottanta, più precisamente il 1986. Spaesato e confuso, il ragazzino incontra per caso facce che per lui sono familiari (o che lo saranno), tra cui i suoi genitori adolescenti, ma nessuna faccia amica, a eccezione dell’infermiera Ines, che si prende cura di lui e che lo adotterà in seguito.
Il passato e il presente rimbalzano l’uno nell’altro, come l’eco delle grida di Mikkel e di Ulrich che si rincorrono nelle caverne di Winden.
Che Dark fosse una serie tv che affronta questioni ben più complesse del viaggio nel tempo (come se il viaggio nel tempo fosse un argomento semplice) diventa chiaro proprio in questa puntata, in cui il campo dell’azione si allarga coinvolgendo la seconda linea temporale della serie, quella del 1986. 33 anni che separano irrimediabilmente alcuni personaggi dal loro universo di provenienza, come nel caso del povero Mikkel, catapultato senza speranza al di là dello specchio, troppo lontano per poter tornare ma abbastanza vicino perché le sue grida di aiuto possano essere udite.
I personaggi di Dark, in questa terza puntata, vengono separati innanzitutto da se stessi: scissi a metà, proprio come lo split screen della scena madre, di cui vi avevamo parlato in precedenza in questo articolo, che ce li mostra a confronto con la loro versione più anziana che avevamo conosciuto nei primi episodi. E non potrebbe essere altrimenti perché, se provassimo a immaginare il mondo come un continuum temporale in cui passato, presente e futuro coesistono, inciamperemmo prima di tutto nei nostri stessi passi.
Diversi eppure sempre irrimediabilmente uguali a se stessi, i personaggi di Dark sono intrappolati ognuno in un loop che si ripete all’infinito, senza possibilità di uscita. Cambiare le cose è impossibile: esiste il libero arbitrio ma non conta. Tutto è invariabilmente scritto e persino gli oggetti, l’ambiente, le case sembrano cristallizzate in un eterno ritorno che ripropone sempre la stessa versione degli eventi.
Nella scena iniziale Mikkel torna istintivamente a casa sua, quella che a tutti gli effetti è casa sua, ma che allo stesso tempo non lo è: la realtà che conosceva e la realtà che sperimenta differiscono di pochissimo, come un ricordo che sfuma appena i contorni delle cose. Eppure quella differenza si rivela abissale, incolmabile, quando ad accoglierlo non c’è sua madre bensì sua nonna e lui realizza che quelle pareti, quell’arredamento, quella musica non combaciano con la sua realtà.
Lei sembra aspettarlo e per un attimo, forse, Mikkel spera che sia solo un incubo, che i frammenti di ricordo perdano i contorni sfocati del sogno e che tutto torni a posto. Ma Jana, sua nonna, non sta aspettando lui bensì suo zio, Mads, scomparso nel nulla proprio come lui e mai più riapparso, almeno non nella sua linea temporale. Allora l’incubo diventa reale, la differenza sottile tra passato e presente diventa una spaccatura, una frattura che dividerà per sempre in due l’esistenza di Mikkel, che diventerà Michael e che vivrà per sempre in un tempo che non gli appartiene.
Un tempo che non sentirà mai suo ma che è l’unico possibile affinché tutto possa verificarsi, perché tutto vada come è necessario che accada.
Rivedere Dark 1×03 a cinque anni di distanza accende una luce diversa sull’intera serie, all’indomani della cancellazione di 1899, la serie degli stessi autori Baran Bo Odar e Jantie Friese. Innanzitutto, è intellettualmente soddisfacente notare come alcuni particolari inseriti fin dalle prime puntate assumano un significato via via sempre più importante mano a mano che la serie continua. Ciò dimostra che in Dark nulla esiste per il puro gusto di esistere ma ogni tassello ha una collocazione precisa all’interno di un mosaico pazientemente assemblato dai suoi autori nel corso di tre stagioni. Abbiamo goduto di questo piacere intellettuale con Dark, con 1899, della quale avevamo appena cominciato a intravedere le potenzialità, ci sarà precluso e ci dispiace.
Un altro aspetto su cui ci si sofferma guardando Dark 1×03 a cinque anni dall’inizio della serie è l’assoluta e irrisolvibile solitudine dei suoi personaggi, a cominciare proprio da Mikkel, protagonista di questo episodio. Catapultato in un altro tempo, vicinissimo eppure lontanissimo, condannato ad assistere alle vite delle persone che ama senza poter partecipare, incaricato dal destino di sacrificarsi affinché, con la sua morte, possa dare inizio a un ciclo di rivelazioni che porterà solo altro dolore e solitudine. L’innocente bambino con la tuta da scheletro, innamorato dei trucchi di magia, diventerà molto presto un ragazzo con l’animo pesante e un adulto spezzato, costretto ad assistere impotente al riproporsi dell’inevitabile.
E così tutti gli altri personaggi, intrappolati in una solitudine senza speranza che li porta a rincorrere la propria ombra, specchiandosi all’infinito nel proprio riflesso, che proviene da una dimensione lontana e sconosciuta e al tempo stesso così terribilmente uguale alla loro. Ci sembra quasi impossibile che quella pallida imitazione degli adulti che abbiamo conosciuto nei primi due episodi siano effettivamente Katharina, Ulrich, Hanna, Charlotte e Regina adolescenti.
Eppure, mentre si specchiano l’uno nell’altro, il dejà-vu è così forte che non possiamo fare a meno di provare una leggera vertigine. I pezzi del puzzle che compongono Dark cominciano ad andare al loro posto eppure non riusciamo a toglierci di dosso la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato e storto in quel mondo viziato dalla continua ripetizione. E questa sensazione non ci abbandonerà più durante la visione della serie.
Dark è la serie che ci serviva per cullare la nostra malinconia, quel bisogno di tristezza e sconsolatezza che a volte fa bene provare, perché è come incamminarsi in un bosco cupo al tramonto, dopo che ha appena piovuto, con la sensazione di non sapere bene dove si sta andando. Eppure sentiamo il bisogno di andare, così come sentiamo il bisogno di assecondare quel sottile male all’anima che le inquadrature malinconiche, la musica indie straziante e i primi piani straniati dei personaggi ci suscitano. Dark 1×03 è la porta verso un limbo di malinconia, esistenzialismo e ansia che varchiamo convinti, consapevoli solo che da quelle grotte non usciremo più uguali a prima.