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Familiar, l’essenza di Dark

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Credi che sia l’apocalisse?

Me l’ero immaginata più rumorosa e accecante.

Hannah a Ulrich, Dark 1×3.

Due bambini sognano la fine del mondo. Per loro è semplicemente la fine della loro soffocante cittadina, Winden, che ha fagocitato dei bambini come un mostro feroce e da cui tutti vorrebbero scappare. La fine del mondo è voltare pagina, cambiare città, andarsene, ma loro non lo faranno. Si ritroveranno anni dopo, adulti, per strapparsi di dosso gli ultimi brandelli di normalità. Questo, e molto altro, è Dark.

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La terza puntata di Dark ci presenta i primi pezzi di un puzzle di inedita complessità, che inizia a rivelare i suoi contorni di affresco familiare inserito in una cornice di oscurità, mistero, solitudine. Le distanze, in una cittadina come Winden, sono in realtà ridotte, ma si dilatano fino a diventare incolmabili quando la variabile del tempo si insinua come un serpente nelle pieghe della nostra ordinarietà, sconvolgendo la nostra mente. Mikkel non è mai stato così vicino ai suoi genitori da quando le grotte lo hanno inghiottito, eppure la distanza siderale del tempo li separa.

Hannah e Ulrich sono insieme ad aspettare la fine del mondo, e noi sappiamo già che quei due bambini diventeranno adulti capaci di offendere, di ferire, di manipolare.

La spirale di solitudine e dolore che piega su se stessa Regina è sempre uguale, e il suo destino di vittima sacrificale è già scritto ancora da bambina. In Ines, l’istinto mai sopito di protezione si risveglia nel 1986 come nel 2019, verso quella strana creatura che il tempo le ha dato come figlio, e che anche dopo la morte sembra chiedere aiuto. I personaggi ci vengono mostrati com’erano e come sono, e nonostante siano separati da se stessi dal tempo sono talmente vicini alla propria immagine da farci pensare che quello schermo diviso a metà sia, in realtà, uno specchio.

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La solitudine è esasperata proprio dal contrasto tra l’apparente vicinanza dei personaggi con se stessi data dalla tecnica dello split screen, e l’effettiva distanza che c’è tra tutti loro, anche quelli apparentemente più vicini, anche tra i familiari. In Dark centrale è la famiglia, in cui il singolo viene visto sia come parte integrante che come individuo separato. Non c’è identificazione nel nucleo, l’appartenenza è qualcosa che va al di là dei legami di sangue; la famiglia non è una cosa scontata in un universo dove tutto è fragile, dove tutto scompare, dove la pioggia cade sempre a infierire su chi vaga.

L’essere famiglia va di pari passo con il familiare, ovvero con l’assonanza di qualcuno con il nostro inconscio. È come se esistessero delle risonanze interne a noi, che non siamo sempre in grado di sentire, che echeggiano alla stessa frequenza di altre che avvertiamo come simili, come compatibili, come familiari. La famiglia è il nucleo indissolubile attorno al quale si snoda il serpente che si morde la coda, che con il suo infinito girare muove le viti del mondo di Dark, rendendo ogni situazione specchio di se stessa.

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Questa scena della prima stagione di Dark è una dolente poesia che cuce le estremità dei personaggi in un labirinto di dolore condiviso; il destino si è messo in moto, scrivendo la parola Fine su una storia che deve ancora cominciare.

Il peso dei segreti, del non detto, il manto di inconsapevolezza che avvolge i personaggi di Dark e che piano piano si scosta, esponendoli al buio e al freddo della conoscenza. Un letto vuoto che riecheggia antichi abbandoni. Un rituale di bellezza e scoperta di sé che diventa dolorosa accettazione di un destino che non si può cambiare. Lo smarrimento della perdita che riecheggia nel corridoio circolare del tempo, la fascinazione per la morte che porta ad aprire il vaso di Pandora dei segreti. Questa scena, e questa canzone, rappresentano una parentesi di dolorosa penombra prima che si apra il buco nero del tempo, prima che l’oscurità si spalanchi, sotto la maschera di un milione di occhi indagatori.

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