In un tranquillo pomeriggio del maggio 2017, in un salotto della bollente Cordoba, io e un’amica venuta a trovarmi mentre sono in Erasmus decidiamo di cominciare una nuova serie tv. Spulciamo un po’ il catalogo Netflix – che di capolavori ne ha parecchi – e ci soffermiamo su una serie uscita da poco, Dear White People. Leggiamo la trama, le tematiche trattate sembrano proprio quelle che interessano a noi studentesse di Scienze Politiche. Tra discriminazione razziale e disuguaglianze economiche, gli ingredienti ci sembrano quelli giusti. Cominciamo a guardarla, seguiamo insieme due o tre puntate, poi la mia amica torna in Italia. Io continuo a seguirla, interessata alla storia ma nemmeno troppo entusiasmata da quello che sto guardando. Giudizio: senza infamia e senza lode.
Cambio scena. È il 2020, siamo in pieno lockdown e io sono alla disperata ricerca di una serie tv da guardare. Una mia amica – non la stessa di prima, se a qualcuno incuriosisce la cosa – mi consiglia di cominciare Sex Education. La seconda stagione è uscita pochi mesi prima, siamo a quota 16 episodi totali e a me non sembrano né troppi né troppo pochi. Tutti ne parlano bene e io decido di fidarmi. Divoro entrambe le stagioni nel giro di niente, un episodio dopo l’altro come se non avessi altro da fare. Ok, sono chiusa in casa, ma sono anche una studentessa universitaria al suo ultimo semestre. Ma niente da fare, entro dentro la trama con tutte le scarpe, e alla fine mi dico: e adesso? Quanto mi toccherà aspettare per averne ancora? Qualunque risposta a questa domanda mi sembra un tempo che non sono disposta ad attendere.
Ecco, avete appena avuto una panoramica generale del mio primo approccio con Dear White People e con Sex Education.
Si tratta di due serie che, se vogliamo, possiamo inserire all’interno di una stessa tendenza, quella della serialità Netflix dalle tematiche impegnate ma dai toni non tragici, che forse oggi ha perso un po’ di appeal nel pubblico ma che nella seconda metà degli anni Dieci andava più forte che mai. Una tendenza alla quale personalmente non mi sono mai disaffezionata e che mi ha portato, tra tante serie nel panorama della piattaforma, a scegliere proprio queste due. Serie tv dalla durata simile – quattro stagioni per entrambe – e dalla struttura accomunata nell’interesse e nell’importanza che danno, soprattutto nelle prime stagioni, a personaggi che non sono i protagonisti della storia ma che aiutano a costruirla nella sua totalità. Due serie che si ripropongono di raccontare il mondo reale in modo realistico ed entrambe a loro modo efficaci.
Ma Dear White People e Sex Education sono anche due serie dai destini e dagli esiti molto diversi. Mentre la seconda si è inserita a mani basse negli annali della serialità contemporanea, la prima ha fatto parecchia fatica a uscire dalla sua nicchia. E forse, a ben pensarci e con non poca tristezza, non ci è mai riuscita del tutto. Se pensiamo al fatto che si tratta di due prodotti con più di una caratteristica in comune, ci viene da porci un paio di domande. Come mai? Quali sono le motivazioni che hanno portato due serie dalle origini, dalla struttura, dallo stile e dagli ideali simili a divergere così tanto nel successo e negli esiti? Insomma, come mai Sex Education ha avuto un successo incredibile (e incredibilmente meritato) ma Dear White People no? Ecco, oggi proviamo a rispondere a queste domande, e lo facciamo considerando due fattori principali.
Cominciamo da un elemento tanto banale quanto fondamentale: l’empatia nei confronti del personaggio principale.
Il protagonista di Sex Education non ha bisogno di molte presentazioni. Nella prima stagione Otis Milburn è un adolescente non proprio tra i più fighi del liceo, con una vita sessuale e sentimentale pari a zero e un’attività come consulente sessuale scolastico in ascesa. Un’attività che va così bene grazie all’incredibilmente profonda capacità di Otis di connettersi agli altri, di comprendere le persone e di aiutarle. E questa connessione, questo imprinting immediato, si crea anche con il pubblico che, senza nemmeno accorgersene, comincia ad affezionarsi a Otis e addirittura a volergli bene.
Lo stesso non si può dire di Samantha White, protagonista di Dear White People. Intendiamoci, quello di Sam è un gran bel personaggio: è una ragazza decisa che non ha paura di esporsi, cosa dimostrata dal fatto che fa dell’attivismo la sua ragion d’essere e arriva a dare il via a una rubrica dal titolo Miei carissimi bianchi nella radio di un’università nella quale il problema della discriminazione si sente forte e chiaro. È testarda, provocatoria e porta avanti le sue idee senza paura, o per lo meno imponendosi di non mostrarla agli altri. Caratteristiche, queste, che a volte la fanno sentire un po’ troppo al centro del mondo, cosa che non convive molto bene con la questione empatia.
Morale? Sam è un gran bel personaggio, ma troppo spesso è un personaggio non destinato a piacere.
Per quanto Dear White People si strutturi come una serie corale, che dà a ognuno dei personaggi lo spazio di cui ha bisogno e che merita, e che addirittura mostra puntata dopo puntata i loro punti di vista, l’assenza di una protagonista da amare pienamente si fa sentire. Sam non ci dispiace, ma riesce davvero difficile sentirsi in connessione con lei. E se, come nel mio caso, capita di preferire le puntate incentrate sugli altri a quelle più legate alle sue vicende – la forza impattante dei racconti relativi a Coco e a Reggie non ha assolutamente eguali -, allora non si può non ammettere che sì, c’è un problema. Un problema che però non è l’unico.
Per capire di cosa si tratta, e avviandoci verso la conclusione dell’articolo, torniamo un attimo indietro a dove abbiamo cominciato. Nello specifico, torniamo alla definizione della tendenza di Netflix a una serialità “dalle tematiche impegnate ma dai toni non tragici”. E a mio parere sta proprio nei toni il secondo fondamentale elemento che ha impedito a Dear White People di anticipare il successo avuto qualche anno dopo da Sex Education.
Per quanto provi in molti momenti a smussare i suoi angoli più duri, troppo spesso Dear White People manca di leggerezza.
Lo so, ci sono serie tv e serie tv, ci sono tematiche e tematiche, e non tutte si prestano sempre e comunque alla leggerezza e all’ironia del racconto. A volte i temi difficili vanno semplicemente trattati come tali, lasciando alla loro problematicità lo spazio che merita. Altre volte però non è così, e questo ce lo ha ricordato proprio il successo di Sex Education. Riuscire a raccontarci un periodo complesso come quello dell’adolescenza e delle esperienze che da adolescenti si fanno col sesso e con l’amore è stata la chiave di volta che ha permesso alla serie di distinguersi dall’infinità di teen drama presenti nel panorama seriale. Otis e compagnia ci fanno riflettere e sorridere contemporaneamente, arrivando forse a definire una nuova serialità adolescenziale. O forse, più semplicemente, rispecchiando la necessità che abbiamo di leggere il mondo con un po’ di leggerezza in più.
Dear White People da questo punto di vista non riesce a essere né carne né pesce. Ci parla di questioni importanti, mettendoci davanti a esempi lampanti di discriminazione razziale e soprusi. Mostra la violenza della polizia nei confronti delle persone nere e le conseguenze che questa ha sul singolo e sull’intera comunità. Ci dice tante cose che abbiamo bisogno di sentirci dire, ma ce le dice senza mai definire totalmente ciò che è. Non riesce nell’intento di essere leggera né di essere totalmente cruda. Non alterna i momenti ironici a quelli tragici – cosa che per esempio ha recentemente fatto con successo Baby Reindeer, ma tenta di fondere ironia e tragicità, con il risultato di andare a creare una sorta di ibrido che però non funziona pienamente.
Né bastone né carota, Dear White People finisce così per confondersi nel mare magnum infinito della serialità.
Non spicca come avrebbe potuto fare, pur restando un valido esempio di quelle serie che hanno davvero qualcosa da dire. Da vedere? Assolutamente sì. Da ricordare nel tempo? Forse. Insomma, con buona probabilità non ruberà a Sex Education lo spazio che occupa nella nostra memoria ma questo, arrivati ormai a fine articolo, lo avevamo già capito.