Prima di rispondere a questa domanda dovremmo domandarci “perché tante persone non amano i musical?”. I non amanti del genere, definiti oltreoceano “musical snob“, sono coloro che ritengono che debba esistere una motivazione realmente valida e congruente alla storia che spinga i personaggi a cantare. Lo stesso Justin Simien, creatore di Dear White People, si definisce un musical snob, ma ha ritenuto questo genere “the perfect metaphor for how Black people exist in white spaces”.
La metafora di come le persone di colore vivano negli ambienti bianchi è costituita proprio da quella “reale motivazione a cantare“. Questa motivazione è data essenzialmente dal fatto che, per i suprematisti bianchi, le minoranze etniche in generale e più nello specifico gli afroamericani, possano esprimere realmente sé stessi solo intrattenendo l’uomo bianco e giustificando l’espressione di sé con l’arte più che con le parole. Questa contraddizione viene esposta nell’ultima stagione di Dear White People proprio nel momento in cui la meta narrazione della storia dei suoi personaggi, sviluppata attraverso il racconto della realizzazione del musical Varsity Show, viene utilizzata per delineare definitivamente la caratterizzazione di tutti i protagonisti. Justin Simien da ai “carissimi bianchi” ciò che la comunità bianca si è sempre aspettata dalla comunità nera, ossia un racconto dei suoi protagonisti in musica, e lo fa senza abbandonare lo stile provocatorio e ironico che ha caratterizzato tutte le stagioni della fortunata serie Netflix (qui ne trovate la recensione)
Nel musical messo in atto da Dear White People, tuttavia, le contraddizioni che emergono non sono solo quelle tra bianchi e neri
Il primo scontro ideologico ad emergere, infatti, è quello tra persone dello stesso gruppo etnico. Se per alcuni la realizzazione del Varsity Show rappresenta una grande opportunità in quanto prima occasione per la comunità nera di dirigere uno spettacolo da sempre affidato ai bianchi, per gli altri è inammissibile accettare di mettere in scena uno show tenuto da sempre in un edificio intitolato ad uno schiavista. Da qui si apre l’importante tematica del binomio tra integrità e compromesso e, più nel dettaglio, sul fatto che per combattere e cambiare un sistema va prima accettato il compromesso di farne parte. L’accettare di realizzare il musical simboleggia proprio l’entrare in quel sistema che stereotipa gli afroamericani come possessori del talento musicale e nient’altro, ma è l’unica maniera in cui portare in scena la propria verità. Affinché questo accada, tutti i protagonisti dei 10 episodi monografici che compongono l’ultima stagione sono dovuti scendere a patti con i propri principi ridimensionandoli, e l’altra contraddizione che ne viene fuori è quella relativa ai gruppi attivisti.
L’attivismo in Dear White People, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non è esente da critiche. La lotta cieca perpetuata senza logica finisce per diventare fanatismo controproducente, rischiando di diventare dipendenza alla lotta più che alla causa.
Parlando di musical e della metafora che questo rappresenta, è impossibile non citare un concetto chiave della serie: la performance.
Ciò che i personaggi hanno messo in scena sin dalla prima stagione (ma in particolar modo nell’ultima) è l’impeccabile performance che il mondo si aspetta da loro in quanto minoranza etnica. Far valere la propria voce in un contesto che tende a coprirla implica il doppio della fatica, e questo aspetto è riscontrabile in quasi tutti i protagonisti: dalla perfezionista Coco (Antoinette Robertson) a Reggie (Marque Richardson), emblema sin dall’inizio dello scontro impari tra polizia e afroamericani, da Lionel (DeRon Horton) che deve difendersi dalla persecuzione doppia data dall’essere afroamericano e omosessuale alla stessa Sam (Logan Laurice Browning) che nel suo show radiofonico “Dear White People” che da il nome alla serie non può permettersi passi falsi a causa della pressione derivante tanto dalla comunità bianca quanto da quella nera, che arriva ad accusarla di race-baiting facendole dubitare sia del suo ruolo da attivista sia della sua storia d’amore con un uomo bianco.
Analizzando invece le performance musicali in quanto tali e non solo nel loro simbolismo, una delle migliori per esecuzione e coesione al contesto è la Virtual Insanity di Reggie, esplicativa della “follia virtuale” verso il quale sembra procedere il futuro del mondo, sempre più incattivito e pronto a puntare il dito verso l’altro, che sia del proprio gruppo etnico o di quello opposto.
“Future’s made of virtual insanity now
Oh, now there is no sound – for we all live underground“
Ed è qui che emerge il vero punto di forza della serie, rappresentato dall’invito al dialogo per contrastare le diversità e le follie (virtuali e reali). Sebbene il titolo possa far pensare a una conversazione unilaterale e indirizzata a un singolo interlocutore, la dear white people appunto, l’incipit va inteso invece come sollecitazione alla cooperazione: come possiamo venirci incontro, carissimi bianchi? Arriviamo al finale con l’inversione di rotta, i protagonisti guardano dritto in camera e diventano spettatori di coloro che sono dal lato opposto dello schermo, noi, i nuovi performer dello show della vita che non può più permettersi di sbagliare.