A cavallo tra il 2006 e il 2007 in Giappone, e tra il 2008 e il 2009 in Italia, va in onda l’anime Death Note, adattamento televisivo del manga di Tsugumi Ōba, la cui regia è affidata a Tetsuro Araki e la sceneggiatura a Toshiki Inoue. Le vicende della serie sono ormai note: un brillante studente di nome Light Yagami raccoglie un quaderno della morte lasciato cadere sulla Terra dallo shinigami Ryuk. Decide di sfruttarne i poteri per “purificare” a modo suo il mondo, uccidendo i criminali. A ostacolare il suo piano ci sarà il più grande detective del mondo, L, il quale con il suo intervento darà vita a uno dei più grandi scontri tra geni mai visti nelle Serie Tv.
Di un anime lungo e complesso come Death Note (si compone infatti di ben 37 episodi) è difficile ridurre l’analisi soltanto a due macrotemi come la morale e la giustizia. Ci sono, infatti, molte altre tematiche importanti e interessanti. Tuttavia, proprio la giustizia e l’ambiguità con cui essa viene definita sarà oggetto dell’articolo odierno, in quanto mai come in questa serie essa si pone in un modo talmente particolare da dividere, inevitabilmente, gli spettatori. Cominciamo, dunque, con il concetto di giustizia che emerge da Death Note.
Nel corso delle puntate, fin dall’inizio, lo spettatore osserva la nascita dell’ideologia di Light, o meglio, di Kira. Il ragazzo, essendo in possesso di un quaderno che può uccidere qualcuno soltanto scrivendoci il nome e avendo presente il suo volto, pensa di essere stato scelto per uno scopo superiore. Light, infatti, crede che sia suo compito giudicare i criminali peggiori e ucciderli in massa, in modo da poter creare un mondo giusto in cui lui appare come un vero e proprio dio della giustizia.
Possiamo quindi affermare che Light crede, in maniera ossessiva e a tratti delirante, di essere La Giustizia.
Concentrandoci invece su L, siamo di fronte a un quadro molto meno chiaro. Egli rappresenta senza dubbio le forze dell’ordine e quindi la giustizia in senso stretto, ma nel corso di Death Note non sembra essere interessato all’affermazione di una morale superiore a quella di Kira, quanto piuttosto alla necessità di debellare un soggetto che uccide altre persone credendo di averne il diritto. Soltanto in un caso, in una scena che li pone in luoghi diversi ma contrapposti face to face sullo schermo, L afferma, in contemporanea con Light, di essere “La Giustizia”.
Un primo tema, dunque, legato all’idea di giustizia proposta dalla serie è proprio quello del commettere azioni illegali rimanendo anonimi. Un assioma che emerge, infatti, è che la gente dà valore alla giustizia e alla morale soltanto quando le loro azioni sono controllate. Questo è il motivo per cui in pubblico, almeno all’inizio, tutti condannano le azioni di Kira, ma su Internet, dove è possibile mantenere l’anonimato, il killer ottiene sempre maggiori consensi. Afferma lo stesso Light:
“Gli esseri umani cercano sempre di mantenere le apparenze quando sono in pubblico. Ma questo è ciò che realmente provano. Molti di loro sono troppo spaventati per sostenermi, perché sono spaventati dal giudizio degli altri; ma su Internet, dove puoi rimanere anonimo, il sostegno per Kira sta crescendo”.
Quindi si potrebbe riassumere questa problematica con la domanda: dov’è la giustizia se non c’è nessuno che ti controlla? Situazione di cui è protagonista Light. Nessuno, infatti, potrebbe mai teorizzare l’esistenza di un quaderno magico e, inoltre, il metodo di uccisione è clamorosamente discreto. Death Note in questo senso è estremamente platonica: la serie non cerca di rispondere alla domanda su quale sia la vera giustizia, ma preferisce discuterne portando diversi esempi di essa, esattamente come avverrebbe in un dialogo socratico. Questo, inoltre, è uno dei motivi per cui l’anime risulta così interessante.
Tuttavia, già nella prima puntata, l’ideologia di Light è letteralmente smontata proprio da Ryuk, una figura che non interviene quasi mai nello scontro tra il ragazzo e L, ma che non rinuncia a stimolare il proprietario del Death Note anche per comprendere come ragionano gli umani. La frase di Ryuk, in risposta all’idea di uccidere tutti i criminali del mondo, è la seguente:
“Ma se tu lo facessi, ciò ti renderebbe l’unico cattivo rimasto”.
Light non ha una vera risposta a questa affermazione, e in questo senso sembrerebbe emergere il concetto di sacrificio: egli è disposto a sacrificare Light Yagami a vantaggio di Kira, perché il fine è superiore al mezzo. Infatti, proprio nella convinzione che “il fine giustifica i mezzi”, egli si sente in diritto di eliminare tutti coloro che lo ostacolano, anche (e spesso è così) se non si tratta di criminali. In questo senso è interessante aprire una parentesi sul caso Naomi Misuda.
La puntata è la settima e siamo nel bel mezzo del più grande rischio corso da Light fino a quel momento: se Naomi, fidanzata dell’agente FBI che pedinava Light e che egli stesso ha ucciso, raggiunge la polizia con le informazioni che ha, facilmente le forze dell’ordine ricollegheranno il ragazzo agli omicidi di Kira. Egli ha già provato a ottenere il nome, ma la donna si è rivelata furba, dandone uno falso. Soltanto grazie a un incredibile stratagemma la raggira, scrive il vero nome e la fa suicidare.
Ma concentriamoci sulla struttura della puntata. Per tutti i 20 minuti, i due personaggi percorrono una strada. Banale, si potrebbe affermare. La genialità, invece, è proprio in questo. 20 minuti di pura tensione raccolti in una semplice camminata, in tante micro-sequenze in quella che è solo una sottotrama della più ampia storia.
La regia e la scrittura, in questo frangente, sono a dir poco sublimi.
Tornando alla giustizia di Kira, e in generale in Death Note, come anticipato, spesso e volentieri è l’ambiguità a prevalere; a parte Light quasi nessuno prende una posizione netta sulla questione. Il merito è del modus operandi del killer: uccidendo solo i criminali peggiori, è automatico porsi il dubbio se tutto sommato non stia facendo bene. Gli investigatori L, Mello e Near, per esempio, non prendono una posizione, ma hanno come unico obiettivo quello di eliminare Kira. Sembrerebbe, soprattutto per Near, più una necessità di vittoria personale piuttosto che affermare un vero e proprio modello di giustizia.
Alla fine della serie, infatti, lo spettatore non è portato a dire che ha vinto la giustizia di Near.
Quest’ultimo, infatti, ha solo sconfitto Light/Kira, ma non ha mai proposto una sua giustizia, se non quella che deve catturare il malvagio per rimuovere il problema. Attraverso i suoi personaggi, Death Note ci spinge a chiederci: ma Light ha completamente torto? Un ruolo determinante è proprio quello dell’agente meno considerato dagli altri, il giovane Matsuda. E’ lui, nella task force, nel corso degli anni a mettere in evidenza che forse Kira non è solo cattivo. O meglio, Matsuda ne riconosce la bestialità e la malvagità, ma riconosce che l’obiettivo di Kira è di fatto quello a cui mira anche la polizia: eliminare i cattivi. Curioso, dunque, che sarà proprio Matsuda a uccidere Light: deluso e spaventato, non può che scaricargli addosso tutto il caricatore, risparmiandolo dal finale proiettile alla testa.
L’unicità della serie, dunque, sta proprio nel fatto che la risposta non c’è. Proprio come un dialogo socratico nelle opere di Platone, affida alla sensibilità degli spettatori la risposta su quale sia la giustizia da seguire, proponendo attraverso i suoi fantastici personaggi (Light ed L su tutti) diversi modelli mai totalmente condivisibili e, dunque, ambigui. Ambigui proprio come Ryuk, genitore di questa storia, da lui iniziata per semplice noia; ed è proprio alla noia, parlando ad un Light morente, che si riferisce lo shinigami nell’ultima suggestiva frase della serie:
“Ne abbiamo passato di tempo insieme, a scacciare la reciproca noia. È stato proprio uno spasso”.