Siamo fermi, nel silenzio di una stanza che si riscalda col buio. Pensiamo, perché così possiamo essere in due anche da soli. Parliamo, perché nella stanza le parole stanno più larghe che nella nostra testa.
Esausti poiché immobili, e non immobili poiché esausti, giudichiamo con lo sguardo la levigatezza delle maniglie e la spietata geometria dei quadri a muro. Una cosa è certa: non abbiamo mai osservato la nostra stanza come quando ci siamo trovati costretti a farlo ogni giorno, ormai 3 anni fa. Quel limite guida che fu, è l’introduzione al microcosmo di Light Yagami, protagonista di Death Note. Quell’oppressione riflessiva che ci ha portati a recuperare un più intimo, primitivo valore semantico alla nostra stanza: il senso di rifugio.
C’è un termine giapponese che sintetizza alcune fasi della condizione di Light Yagami: hikikomori. Il termine formato da “hiku” (tirare) e “komoru” (ritirarsi, chiudersi), rappresenta un fenomeno psicologico e sociale estremamente diffuso appunto in Giappone, che consiste nell’evasione – fisica nel caso specifico, sebbene non propriamente attribuibile al protagonista di Death Note, ma ci arriveremo – dalla vita sociale, nell’isolamento indotto dalla rigida cultura dell’autorealizzazione cui si è sottoposti sin da giovani in Giappone. Una sorta di ribellione della gioventù giapponese alla cultura tradizionale.
Un hikikomori più fedelmente corrispondente alla definizione è senza dubbi L, ma la necessità di Light Yagami nella ricerca di un rifugio spirituale è una delle psicosomatizzazioni più vicine all’alienazione che l’intera trama ci offre, e che rivela un disturbo a decorso fasico (la repentinità di stato nel finale dell’anime, durante il delirante e agghiacciante monologo finale di Kira, è uno degli esempi).
Una stanza tutta per sé: questo è lo spazio che si è concesso, da solo, mentre scrive la morte e parla la vita, quella ideale, raccontando il mondo che è così tanto facile a dirsi da poter comodamente entrare nella sua stanza. E allora sì, quello spazio può anche bastare.
Il rifugio per Light è una necessità. Lo diventa quando L, la sua nemesi, lo mette alle strette in una sfida di nervi a corde d’arpa che ha pochi eguali nella storia televisiva. Eppure col tempo, senza che Light stesso se ne renda conto, quella necessità diventerà un comfort. Quel luogo che insonorizzava le intenzioni finisce per amplificarle, ora che la stanza è allestita a microcosmo perfetto, dove ogni tassello è la necessaria virtù di chi non ha bisogno del mondo se ne ha in tasca un altro. La sociopatia di Light Yagami in Death Note fa a spade col suo bisogno di isolarsi, ed è evidente come questo bisogno venga ritratto con una manifestazione crescente, una progressione saturante. Quella in cui il concetto di “rifugio ideale” assume un ruolo chiave.
Il delirio di onnipotenza del protagonista di Death Note è direttamente proporzionale al controllo sulla zona di comfort che lo circonda. A tal proposito torna utile, ancora una volta, l’esempio del crollo psicologico e la perdita di controllo nel finale, quando le strette e ruvide mura della sua camera hanno lasciato il posto alle larghe e scivolose pareti del magazzino in cui il Dio del nuovo mondo ha perso i confini sicuri delle sue regole.
In quella stanza tutta per sé, Kira si sentiva abbracciato dall’oppressione delle aspettative (quelle che apparentemente sono di se stesso e basta, ma che intimamente hanno molto in comune con la figura dell’hikikomori), subendo seraficamente il lieve, costante ma controllabile dolore della prigionia che è meno pericoloso dell’incontrollabile libertà. Nell’apatia di quel diabolico controllo, il “Light ragazzo” si è pian piano spento, e lo rivedremo un’unica volta mentre supplica umanità a se stesso, nella corsa finale al patibolo prima che Ryuk scriva il suo nome sul quaderno. Lì, mentre si domanda disperato dove siano finite tutte le persone a lui un tempo care, quasi dimenticando le disumanità compiute, vediamo il Light Yagami che sarebbe potuto essere.
Nel malinconico tempismo dell’irreparabile, nel futuro che non sarà mai, c’è quel messaggio di Death Note che va oltre il libero arbitro, il concetto di giustizia e la religione.
C’è tutto ciò che vi era oltre le mura di quella stanza tutta per sé, che vale più di una macchia nera a nord est che ritrae di rosso a sud ovest. Più del diabolico determinismo corrotto tracciato dall’inchiostro. Quello protetto da una penna suonata in corsivo da un ragazzo vestito da giudice. Quello contenuto in una stanza.
Una stanza così grande da contenere il destino, ma così piccola da stritolare la mente.
Quella tutte per sé, dove Light Yagami ha imparato a contare solo fino a uno.