Cosa c’è di più di sensuale di due corpi che si sfiorano sembra potersi abbracciare? Di un movimento vorticoso che si interrompe un attimo prima dell’estasi? Di una libertà esibita con sfrontatezza nel tunnel censorio di un Paese che brancolava ancora nel buio? Forse niente al di là dell’azione stessa, persino di più. L’allusione, allora, si sublima in una rivoluzione. E un ballo, proibito, si fa manifesto di un capovolgimento culturale a cui sembriamo non essere ancora pronti dopo cinquant’anni. Paiamo non essere ancora pronti al Tuca Tuca, oggi. Troppo piccoli, noi, di fronte alla figura inarrivabile di Raffaella Carrà. Persi nella curva disegnata sinuosamente dal suo ventre, e incapaci di essere liberi fino in fondo come solo lei ha saputo essere.
Perché è facile pensare a Raffaella Carrà, quanto di più nazionalpopolare possa esserci stato per decenni di fronte ai nostri occhi. Ma allo stesso tempo è un pensiero impossibile, intangibile, illeggibile per i più ottusi.
Persino ora, in un oscuro periodo storico in cui abbiamo finito per mettere la retromarcia. Nazionalpopolare, Raffaella. E di nicchia, la Carrà. Di tutti e di nessuno, per pochi. Una contraddizione apparente che si disvela negli occhi eterei e nel movimento sfrenato di una donna che non ha mai rinunciato a se stessa, a ogni costo. Per diventare un’icona andando oltre ogni superficiale divismo, in nome di un’umanità da abbracciare con la profonda essenzialità di una donna mai soggiogata a preconcetti e innaturali bigottismi.
Quasi stupisce l’idea che una donna così, un’artista capace di risvegliare un intero Paese mettendo al centro della sua arte la giocosa riappropriazione di una sessualità per troppo tempo repressa, sia figlia di una certa Italia. Persino provinciale, purtroppo provincialista. Un’Italia da sempre proiettata con sommessa lentezza verso il futuro, distante dal presente e aggrappata a un passato ormai fuori dal mondo.
Eppure così è stato: Raffaella Carrà, d’altronde, è stata la figura delle contraddizioni solo apparenti, armoniose nel suo pensiero. E dal pensiero, liberate in un movimento che ha trascinato anche le anime più timide.
Raffaella Carrà è, allora, un enigma solo in parte disvelato. E ben vengano le interpretazioni, se oneste e connesse alla sua figura senza la ricerca di una volgare appropriazione. Come ha fatto con grande equilibrio la docuserie Raffa, opera di Daniele Luchetti disponibile da alcuni giorni su Disney+: il documentario in tre parti, tre parti dalla funzione narrativa fondamentale nello scindere la donna dalla leggenda e la leggenda dalle mille vite artistiche che hanno attraversato oltre cinquant’anni della nostra storia, ricostruisce il mosaico di una Raffaella Carrà inedita pur essendo sempre stata davanti a noi. Emoziona l’idea che sia stata capace di anticipare i tempi con la forza visionaria di un’artista italianissima che di italiano pareva avere allo stesso tempo molto poco. E che per essere se stessa, se stessa sul serio, non abbia mai avuto bisogno di rifugiarsi chissà dove, nelle segrete stanze in cui essere liberi diveniva un privilegio destinato a pochi eletti. No, Raffaella è stata chiunque volesse essere di fronte a milioni di persone, dentro la tv, nelle piazze gremite e nelle radio irradiate di luci arcobaleno, risultando ancora oggi una figura avanguardistica.
Il suo Tuca Tuca ci ha liberato dalle fantasie notturne per darle forma in un terreno profondamente pubblico, con la grazia della più grande e un’innocente malizia che ha piegato i più beceri tabù al cospetto di una bellezza desiderabile e mai morbosa. Il suo ombelico, esibito con sfrontata semplicità, ha combattuto una battaglia culturale ancora in corso. La sua chioma bionda è andata oltre i limiti del bianco e nero, trovando i colori là dove le tecnologie non fossero ancora preparate a un degno supporto. E quando l’hanno fatto, quasi all’alba degli anni Ottanta, hanno portato avanti una battaglia culturale che ha superato il femminismo ideologico per abbracciare un’emancipazione sostanziale ancora più efficace. Senza fermarsi là, senza fermarsi mai: l’urlo libero di Raffaella Carrà si è fatto allora ponte per i diritti di chiunque non volesse riconoscersi in uno schema binario, dando fluidità a un mondo che camminava senza energie mentre lei correva con un’intensità forsennata. Senza ricorrere ad atteggiamenti ridondanti, retorici, spocchiosi e per questo inefficaci: Raffaella Carrà è stata una di noi, e nell’esserlo è stata davvero unica.
Nel novembre del 2020, d’altronde, il Guardian aveva parlato di lei come della “popstar italiana che aveva insegnato le gioie del sesso all’Europa“: l’impegnativa definizione, seppure generosa e centrata, rischia però di essere persino riduttiva. Al di là degli orizzonti del suo inevitabile successo, sconfinato dalla Spagna post-franchista a un Sudamerica che ha ritrovato in lei la forza di sorridere e vivere anche dentro il turbinio delle peggiori dittature, le mille vite artistiche di Raffaella Carrà hanno superato l’incedere del tempo trascorso attraverso una ridefinizione graduale: la figura esplosiva e sovversiva della prima fase si è trasferita in un personaggio ancora più rassicurante, altrettanto empatico e sempre più materno. Una presenza che è divenuta parte delle nostre famiglie grazie all’intatta luce di uno sguardo che l’ha avvicinata a un pubblico trasversale e riconoscibile che si è riconosciuto in lei: l’inarrivabile Carrà, così, è divenuta la Raffaella di tutti noi. La docuserie di Disney+ scava attraverso i passaggi generazionali nell’anima della donna, ricerca con discrezione elementi più privati che trovano nella nuova dimensione televisiva un’espressione ancora più diretta e arriva fino agli anni Novanta, dove la sovrapposizione tra Raffaella Carrà e Raffaella Pelloni – scisse per una vita quasi fossero due persone distinte – si è completato col successo inarrestabile della sua Carramba.
Molti, in questo, hanno contestato a Raffa l’idea che l’ultima Carrà, quella che ha saputo essere protagonista imprescindibile delle nostre vite anche negli anni Duemila, non sia stata omaggiata a sufficienza – l’abbiamo fatto pure noi nella nostra recensione – ma in fondo va bene così. Se da un lato c’è qualche rimpianto nei confronti dell’esecuzione di un prodotto che avrebbe avuto bisogno di più tempo per chiudere al meglio il cerchio, dall’altra ha comunque risposto degnamente a una domanda che tutti si sono fatti nel momento in cui hanno incrociato il suo sguardo pieno di energia: chi era davvero Raffaella Carrà? Una straordinaria artista? Una donna sovversiva? Un desiderio proibito? Una madre? Un padre? Una nonna capace di insegnare a vivere senza mai avere la presunzione di farlo? Forse tutto questo, forse molto di più. Anzi, ne siamo certi: molto di più. Perché quando si diviene un’icona e si finisce per prendere sulle spalle un mondo intero, proiettandolo avanti nel tempo con la leggerezza di un movimento sinuoso, dare una risposta davvero esaustiva spezza la magia e decostruisce una rivoluzione privandola del suo senso più profondo. Fermiamoci qui, allora. Riavvolgiamo il Novecento con un pensiero. Torniamo al bianco e nero, all’ombelico scoperto e ad Alberto Sordi. Lasciamoci andare al ritmo inarrestabile di un’ode all’amore e al sesso. Sfioriamo la Carrà con un pensiero, una volta ancora. Poi giriamoci dall’altra parte, nel nostro mondo, e incrociamo lo sguardo di una persona che ci piace: balliamo, insieme. Tocchiamoci, facendo finta di farlo. Perché no: facciamo l’amore, senza fare finta. Chiunque quella persona sia: non c’è niente di male, ma forse qualcuno non l’ha ancora capito. Forse sì: la rivoluzione non si è ancora completata. Ma Raffaella e la Carrà, per fortuna, saranno sempre con noi.
Antonio Casu