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BoJack Horseman Distopia – Vent’anni dopo la fine di BoJack Horseman

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Distopia è la rubrica in cui ci immaginiamo i futuri distopici delle Serie Tv, provando a proiettare le storie tanti anni dopo la loro conclusione televisiva. Oggi tocca a BoJack Horseman.

Hollywoob, vent’anni dopo la fine di BoJack Horseman.

– Ti manca mai il caos, BoJack?

Il bancone del bar, a passarci sopra le dita, lasciava una sostanza appiccicaticcia sui polpastrelli. La solita storia. A quell’ora, il locale pullulava di gente. Sugli sgabelli alti, davanti al barista, passavano in rassegna i soggetti più strani. Una moltitudine pingue e malinconica di tipi diversi: giovani gattine raggomitolate in colori sgargianti, vecchi polipi dai tentacoli un po’ troppo lunghi, adulti flaccidi e depressi, ogni tanto persino qualche roditore famoso. Un tempo, quello era il locale preferito del senatore californiano Mr. Peanutbutter, che infatti era ritratto in un dipinto proprio sulla parete difronte allo scaffale dei cocktail, quella dedicata alle celebrità di Hollywoob e ai personaggi famosi che erano passati di lì nel corso degli anni. 

BoJack Horseman

– Allora?

Le domande di Todd si facevano sempre più insistenti col passare del tempo. Una nuvola di fumo si alzò dal bancone. Fumare all’interno non era consentito, ma nessuno ci badava mai veramente. 

Dietro quel nugulo fumoso, come spuntata fuori all’improvviso da un’altra dimensione, apparve la criniera grigia di BoJack Horseman.

– Non lo so, Todd. Credo che il caos non ti abbandoni mai veramente. Te lo porti nella tomba, ti accompagna finché crepi. Solo che col tempo impari a dominarlo.

– L’hai dominato il tuo caos, BoJack?

Il vecchio cavallo non rispose. Ordinò un altro drink, lo mandò giù tutto d’un fiato e salutò l’amico biascicando qualche parola di congedo. Todd era sempre circondato da gente che restava ad ascoltarlo affascinata. Era la tipica persona che sapeva ancora catalizzare su di sé tutta l’attenzione, quella che alle feste intratteneva gli invitati con la sua sterminata collezione di storie esilaranti. In molte di quelle storie c’era quasi sempre anche BoJack Horseman. Tempi andati, tempi turbolenti. Tornare indietro, a volte gli faceva male. Altre volte invece, sorrideva senza senso. Forse è questo che si fa, giunti a un certo punto della vita: si sorride dei giorni più disgraziati, ci si stupisce di essere ancora in piedi, nonostante tutto. Siamo dei sopravvissuti, nient’altro che dei sopravvissuti che vagano col ricordo di mille tempeste nel cuore.

Bojack Horseman

BoJack imboccò il vicolo che dava sul retro del supermarket su cui campeggiava la gigantografia del senatore Peanutbutter, con la mascella serrata, lo sguardo cagnesco e la bandiera a stelle e strisce sullo sfondo. Che idiota, pensò BoJack, non ti ho nemmeno votato. Diede una spallata al cancelletto che portava alle scale d’emergenza, le salì fino in fondo un gradino alla volta e si ritrovò sul tetto del supermarket. Da lì si vedeva il volto luccicante di quella Hollywoob che lui più di tutti aveva amato e odiato. La Hollywoob in cui si era perso e forse mai veramente ritrovato. Aspettò ancora qualche minuto guardando lo schermo del cellulare, la telefonata sarebbe arrivata alle 10.00 precise, come sempre.

Gli venne in mente Diane. Non sapeva neppure lui perché. Gli venne in mente e basta. Qualche volta gli capitava di pensarci. La sera, quando rientrava a casa e baciava sulla fronte Molly, la sua compagna. Nel cuore della notte, quando il petto batteva in modo anomalo e il cuscino diventava un arnese fastidioso da tenere sotto il muso. Ci pensava quando era con i suoi studenti, durante le lezioni di recitazione. Ci pensava quando sorvolava Chicago o quando si sorprendeva a guardare il cielo, cercando di scovare nel gigantesco blu la scia che la stava portando chissà dove, da qualche parte nel mondo. Ci pensava ogni volta che saliva su un tetto e l’aria fredda della notte gli gelava le chiappe.

Quanta vita ci è passata addosso, Diane. Chissà dove sei ora, Diane.

Ma prima che i ricordi potessero prendere il sopravvento, squillò il telefono. Alle 10.00, come sempre.

– Ciao, zio.
– Ehi Henrietta.

Sua nipote somigliava molto a Hollyhock. E disgraziatamente anche a lui. Aveva la testa lunga, la criniera marrone, un piccolo rombo bianco sulla fronte e quel riconoscibilissimo tratto malinconico nello sguardo. Aveva sempre un’onda di tristezza che le allagava gli occhi.

– Come sta la mamma? Si arrabbia ancora perché mi telefoni tutte le sere?
– Sai com’è fatta la mamma, zio. A volte esagera, devi darle tempo. 

BoJack gliene aveva dato di tempo a Hollyhock, tanto. Quando era stato in prigione, non aveva mai ricevuto una sua visita, una lettera, un messaggio. Neppure dopo, quando era uscito e aveva provato a rifarsi una vita per l’ennesima volta. L’aveva lasciato con quella lettera, quella terribile lettera, e per anni non si erano più visti né sentiti. BoJack aveva girovagato un po’ a vuoto per qualche tempo, passando da ruoli marginali che Princess Carolyn riusciva ancora a rimediargli, alla pubblicazione di un paio di libri che ottennero un discreto successo di pubblico. Tutti volevano leggere la storia della star della televisione che si era rovinata fino a sfiorare la morte e finire in prigione. 

Poi, però, BoJack Horseman aveva capito che quel tipo di vita non riusciva a renderlo felice. Per quanto si impegnasse, continuava a sentirsi un fallito. Fu allora che decise di dedicarsi all’unica cosa che gli avesse mai dato veramente un briciolo di gioia negli ultimi decenni della sua vita errabonda: insegnare. Essere un punto di riferimento per qualcuno che non ti conosce. Aveva recitato per tutta la vita, magari stavolta avrebbe potuto scegliersi un ruolo che gli piacesse sul serio. Tutto stava nel cominciare, possibilmente col piede giusto.

Poi è più facile. Ogni giorno diventa più facile. Ma devi farlo tutti i giorni. Questo è difficile. Poi diventa più facile.

E un bel giorno, aprendo la porta di casa prima di andare in teatro, si ritrovò difronte Hollyhock. Leggermente ingrassata, col viso che aveva perso il colore degli anni giovanili e una marmocchia che si nascondeva tra le sue gambe. Henrietta, sua nipote.

– Che hai fatto stasera, zio?
– Al solito. Sono stato al bar, c’era la band di Judah che suonava. E Todd che parlava. Parla sempre Todd, è impossibile stargli dietro. Non so se sia un genio o un cretino, a distanza di tanti anni non l’ho ancora capito.

Poi però vide che Henrietta si era incupita.

– Ma tu come stai, tesoro? C’è qualcosa che non va? 
– È che ho sempre questa sensazione strana sul petto. Una specie di peso ingombrante e delle volte ho come l’impressione di stare annegando.

Mentre lo diceva, guardava altrove. Roteava gli occhi in quel modo strano, come volessero scappare dalle orbite. Lo faceva anche lui, fuggire da se stesso. Quanto gli somigliava, la piccola Henrietta. 
BoJack capiva perché Hollyhock non voleva che passassero troppo tempo insieme. Se una cosa cade a pezzi, hai quella paura irrazionale che anche tutto ciò che la circonda possa frantumarsi al suolo con lei. E c’erano ancora delle cose spezzate in BoJack, Hollyhock lo sapeva. Lo capiva, lo sentiva.

– Zio, posso farti una domanda?
– Certo, tutto quello che vuoi.
– Se una cosa è rotta, la butti via?
– No, cerco di aggiustarla.
– E se una persona è rotta? Se una persona è rotta, zio, c’è qualcosa che può aggiustarla?
– …
– Zio, si possono aggiustare le persone rotte?
– 

– Zio BoJack…
– …

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