Distopia è la rubrica in cui ci immaginiamo i futuri distopici delle Serie Tv, provando a proiettare le storie tanti anni dopo la loro conclusione televisiva. Oggi tocca a New Girl Distopia, il mondo di New Girl quindici anni dopo.
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Jess.
Nel nostro ieri le giornate andavano avanti a suon di birra, Americano Vero, flirt e turni delle pulizie della casa. Oggi tutto quello con cui abbiamo a che fare sono i compiti di scuola, le feste di compleanno da organizzare, chi si travestirà da Babbo Natale quest’anno, il lavoro. La mia energia si deve sempre ritenere pronta a fronteggiare le difficoltà degli altri: quelle di Nick, la persona che ho scelto di avere accanto da quando l’ho vista la prima volta in quella casa che adesso mi manca sempre di più, e quella dei due bambini di quattro e sei anni. Insomma, si sa: sono Jessica Day, il mio nome fa rima con aiutare gli altri, esserci sempre, una costante. Adesso tutto quello che ho sempre voluto dare agli altri posso darlo senza mai sentirmi invadente, posso essere ciò che sono sempre stata. Ma adesso che è così qualcosa mi sta avvilendo. Ho bisogno di aria, di respirare. Ora mi sembra tutto pallido, e sento dentro di me la voglia di scappare, di andarmene in un posto in cui i doveri non esistono, Nick non ha bisogno di me e io posso dedicarmi per un solo attimo alla mia parte infantile che ho dovuto mettere da parte per essere responsabile ogni secondo della mia esistenza, ogni giorno della mia vita. Tutti gli altri fanno la stessa identica cosa, eppure non sembra mai pesargli. Sembrano tutti felici, perfino Nick è felice. Siamo quello che è giusto essere adesso: dei cinquantenni che ricordano i momenti passati raccontandoli ai figli. Sono tutti così entusiasti, così giusti nella loro età che inizio a sentirmi sbagliata, irriconoscente rispetto a tutto quello che la vita ha acconsentito di darmi. Si, ha acconsentito perché ogni cosa che ho sono e che ho l’ho voluta io, l’ho pretesa io. Sono quindici anni che vivo ciò che ho sempre voluto, ma adesso sento che qualcosa non va. Adesso vorrei solo riavvolgere il nastro.
Stasera abbiamo la famosa cena del venerdì, quella in cui ci riuniamo tutti e i figli sono esclusi. In quella cena, per me, non esistono responsabilità. Esisto io insieme a quello che – per qualche ora – scelgo di vedere come fidanzato, e non come marito. Mi fa bene vederlo così: lo guardo e lo immagino più giovane, senza quei capelli bianchi che gli contornano il viso dandogli l’aria da Nick Miller lo scrittore e non più solo da Nick. Loro rimangono solo loro. Li vedo e sono identici anche senza i figli. Ne parlano, li mettono in mezzo ai discorsi. Io me li dimentico, e mi fa quasi ribrezzo dirlo. A volte mi disgusta sentire dentro di me quanto il mio lato materno in quelle ore se ne vada in vacanza; altre volte mi sembra legittimo, mi sento in pieno diritto di farlo. Forse è un dovere, in realtà. Forse non hanno ragione loro. Fuggire dalle responsabilità è un dovere, almeno per qualche ora, per cercare di ricaricare le pile. Penso a tutto questo mentre mi preparo curando i dettagli del trucco, sistemando bene le calze e scegliendo un abito a colori, quello a cui a volte devo rinunciare perché ci sono degli impegni più formali che richiedono un colore basic, un dettaglio classico. Ma io non sono basic, non sono classica.
Nick.
Una birra tirava l’altra prima, ma adesso no. Adesso devo essere sempre attivo, sempre presente e sempre sveglio. Assurdo ricordare il me del passato: era tutto il contrario di adesso. Probabilmente prima sarei voluto scappare da una situazione simile senza mai far più ritorno, mentre invece adesso sto bene così. Sono felice perché mi sento sempre a casa, ovunque io sia. Jess, i due bambini – Chalsea, la piccola, e Jason, il grande – costruiscono sempre attorno a me l’atmosfera e le sensazioni che solo a casa propria possono essere vissute, quelle in cui ti senti sempre a tuo agio e non percepisci l’ansia di un cambiamento, di un posto mai visto. Ho sempre avuto paura di tutto questo, e loro risanano questa mia paura in un modo normale, spontaneo.
Ho scritto una montagna di libri, ho raccontato le storie giuste, sono riuscito a crearmi un’identità. Nulla di tutto quello che ho è storto o ricorda i miei disastri, i miei disagi. Ma lo vedo che c’è qualcosa che non va, e quel qualcosa è Jess: cova dentro di lei un sentimento simile alla noia, il desiderio di fuggire. Ci ama tantissimo, e io mi sento così sicuro di questo suo amore, ma so che a volte vorrebbe riavvolgere il nastro e tornare a quei tempi. Lo noto da piccoli particolari che forse solo io posso cogliere: alla cena del venerdì tutti noi parliamo del passato con nostalgia, lei con rabbia, con tristezza. Lo vedo da come sorseggia il vino, da come guarda la nostra nostalgia. Le sembriamo ridicoli. Vorrebbe urlarci contro e chiederci di smetterla di essere sempre così perfetti, così felici, di darle una prova tangibile che non è la sola a voler tornare indietro, vorrebbe non sentirsi sbagliata per provare tutto questo. Io ci provo sempre a farla star meglio ed è per questo che l’idea della cena del venerdì senza figli l’ho avuta io per aiutarla, per concederle di nuovo quegli attimi per cui prova rabbia perché non torneranno più. La guardo mentre si veste e penso, mentre cura tutti quei dettagli che spesso non può più curare per essere più formale, che oggi sarà peggio delle altre sere per lei. Oggi potrebbe scoppiare.
Jess
Arriviamo a casa di Schmidt e Cece, genitori ormai di una ragazza che sta per andare al college: questo significa che rimarranno da soli a casa, che forse – in qualche modo – potranno ritrovare quello che un tempo erano. Mi disgusto ancora una volta perché il mio primo pensiero dovrebbe riguardare la mancanza che sentiranno della propria figlia, e io invece penso alla liberazione. Se qualcuno in questa stanza sentisse i miei pensieri mi butterebbe fuori, mi chiederebbe di lasciare il campo perché non sono all’altezza del ruolo che sto ricoprendo. Avrebbe ragione, ma io non sono un ruolo, non sono una formalità, non sono solo una madre. Io sono anche Jess, io sono soprattutto Jess.
<<Voglio fare una cosa con voi stasera>> Dice Nick bevendo una birra artigianale portata da Winston e Aly <<Americano Vero!>> Tutti si girano e lo guardano con una faccia stranita, con lo sguardo di chi sembra aver dimenticato cosa in realtà sia ciò di cui sta parlando Nick. <<Americano Vero? Tu scherzi. Io domani devo svegliarmi alle otto, non posso essere uno straccio!>> Dice Schmidt <<Anche noi. Sarebbe dura riuscire a reggere il colpo.>> Si accodano gli altri con un eco che mi dà fastidio, che sembra giudicare la scelta di Nick di tornare a essere noi almeno per una sera, di tornare a essere dei trentenni che giocano ad Americano Vero. Si meritano tutto ciò che hanno: lo sanno trattare bene, non sono mai stanchi di essere genitori, di essere ciò che sono diventati. Lo capisco dalle loro facce stranite di fronte a una richiesta così semplice. Si meritano ogni singola cosa. Io no. Non merito niente.
Nick
Americano Vero era la mia soluzione a tutto. Ci ho pensato tutto il giorno. Era il mio regalo per Jess, la mia soluzione per evitare che stasera potesse sprofondare nel silenzio dei suoi ricordi, quei ricordi che lei non urla mai a cui risponde semplicemente accennando un sorriso. Guardo Jess mentre ascolta le risposte degli altri alla mia proposta e sento tutta la sua rabbia taciuta, e lo capisco: la bomba che volevo disinnescare, non l’ho disinnescata.
Jess
<<Allora ceniamo? Iniziamo dall’antipasto adesso, così non si fa tardi.>> Dico con un tono quasi accusatorio, un tono che cerca di mostrare – forse, per la prima volta – che io voglio giocare ad American Vero, che voglio tornare a casa domani mattina. Mi ascoltano e ci mettiamo a tavola cominciando a parlare di tutto quello che già so e conosco e memoria: la figlia di Cece e Schmidt sta preparando le ultime cose, mentre quella di Winston e Aly ha preso una A nell’ultimo compito. Il lavoro va bene a tutti, quella casa in centro è perfetta per una famiglia, il capo ha aumentato lo stipendio, l’amica dell’amica dell’amica ha divorziato, i miei figli crescono, Nick sta scrivendo un nuovo romanzo: tutta la sera così. Mi sto facendo annientare da questa retorica, mi sto sentendo violentata dalla continua banalità delle nostre serate e sento che qualcosa, dentro di me, sta per scoppiare.
<<Jess, tu a lavoro? Come va?>> Chiede Cece <<Tutto bene.>> Chiedimi come sto. Chiedimi se sto per esplodere, tu sei mia amica. Tu mi conosci. Smettila di chiedermi qualcosa già sai, di essere così cortese. Smettila di ricordarmi ciò che abbiamo fatto in passato e dammi la possibilità di riviverlo per una sera. Salvami dalla malattia delle mia banalità.
<<Tua figlia ha già avuto la varicella? La mia l’ha presa praticamente da subito appena nata.>> <<Cece, io tutto bene. Grazie per avermelo chiesto. Grazie a tutti, anzi. Grazie perché siete sempre pronti a chiedermi come io stia in quanto madre, moglie, lavoratrice e donna di mezza età e mai come stia davvero io, senza un ruolo. Sono Jess, prima di essere tutto questo. Voi siete Cece, Schmidt, Nick, Winston e Aly. Non siete solo i figli che avete fatto, il matrimonio che avete celebrato, i soldi che avete messo da parte per una casa più grande per tutta la famiglia. Io voglio un “come stai Jess?” , voglio una birra, voglio i miei amici. Non voglio vedervi sempre svolgere stoicamente il vostro compito da cinquantenni professionisti, voglio potervi dire che mi sento sbagliata perché voglio scappare dai miei figli, dalla casa che ho costruito. A volte voglio scappare anche da te, Nick. Quando ti vedo così intento a farmi felice, a svolgere il tuo compito perfettamente, a starmi accanto. A volte vorrei starmene da sola, sentirmi infinita solo per me.>> Vedo Nick morire un po’ ma di una morte consapevole, pronta già da tempo a questo momento. Tutti gli altri hanno la faccia stranita, un volto che mi fa chiedere se quelli che ho di fronte siano ancora miei amici, o solo il ricordo dei miei trent’anni.
Nick
Guardo Jess prendere la borsa andarsene lasciandoci da soli. Il silenzio cala e fa spazio all’imbarazzo di scoprirsi non rispettosi dei silenzi degli altri, di scoprire che gli occhi che conosci da anni non sono stati un pozzo a cui attingere per scoprire che la verità non era quella visibile all’apparenza. Nessuno aveva capito Jess, e io che invece l’avevo capita cercavo di tappare con delle pezze i suoi ricordi e le sue oppressioni, non curandola mai davvero.
<<L’ho sempre saputo. Era una bomba che sarebbe esplosa, questa. Oggi la guardavo e coglievo tutti i drammi del caso, per questo avevo proposto la partita: volevo regalarle delle ore che sapevo l’avrebbero aiutata.>> Dico io, interrompendo quel silenzio in cui nessuno stava bene. <<Siamo questi, adesso. Parliamo dei pannolini, dei figli, del lavoro. Quello che facevamo prima è passato. Queste sono le cose per cui giornalmente viviamo. Funziona così: del passato si può solo parlare, non replicarlo.>> Dice Cece. <<Io sto bene dove sto, come sto, ma non siamo tutti uguali, tutti così facilmente addomesticabili. Jess ballava sui tetti, raccoglieva fiori, andava alle feste diventando amica di tutti. Nessuno a una festa non sapeva che Jess fosse lì. E nessuno di noi, di fronte a una problema, non sapeva che Jess non fosse lì pronto a risolverlo. Certe volte è stata insopportabilmente presente, ma poi ha sempre avuto ragione lei. Ha sempre trovato il modo. Lo ha fatto in questi 15 anni, e lo ha fatto ancora prima. Ti ricordi quanto tua figlia veniva trattata male alle elementari dalla compagnetta più grande, Winston? Jess appena l’ha scoperto è andata fingendosi una Katy Perry grazie alla somiglianza e ha finto di essere la migliore amica di tua figlia. Dopo di ciò ha partecipato a tutte le sue feste di compleanno travestita perché non poteva essere possibile che Katy Perry non andasse alla festa di tua figlia. E tu, Cece, ti ricordi quando tua figlia è andata da lei per raccontarle i suoi casini a scuola? Tu ti sei sentita esclusa, ma in realtà lo aveva fatto solo perché sapeva che Jess non l’avrebbe mai giudicata, cosa che noi facciamo sempre con tutti. Lei non lo fa mai, non giudica mai. Aiuta e basta, senza porsi delle domande o psicoanalizzarti. Non ti fa sentire sbagliata, cosa che adesso noi stiamo facendo con lei non comprendendola. Jess adesso ha bisogno di ciò che lei è stata per noi.>>
Schmidt è di fronte al computer mentre noi parliamo di tutto questo. Non parla, sta zitto e compila una registrazione. Non è il momento per fare tutto questo, ma evidentemente ci sono delle priorità che adesso valgono più di tutto, più di tutti, più di Jess. Stampa dei fogli e si siede sul tavolo: sono dei biglietti. <<Domani torniamo in crociera, quella in cui siamo andati e abbiamo scattato la nostra foto. Organizziamoci, e andiamo. Avete detto che ne ha bisogno? Ha bisogno dei suoi amici? Eccoci, siamo tutti qui.>>
Jess
Mi fermo su una panchina mentre guardo una famiglia che gioca a pallone. Sono felici, una felicità che io conosco bene e che sento di aver perso in questi ultimi anni. Continuo a sentirmi sbagliata, e mi pento di aver trattato così tutti. Non sono riuscita a stare in silenzio e ho lasciato fare alla mia parte irrazionale, quella parte che ogni giorno devo mettere da parte per far spazio ad altro, a quello a cui devo dare la possibilità di dominare la mia vita.
Alla fine finisce così: se non parli, se non ti apri, poi esplodi e ferisci cercando di fare male alle persone dandogli la responsabilità del dolore che hai addosso. Adesso sono sola, e guardo quella famiglia. Penso al male che ho potuto fare a Nick con quella frase, e mi sento morire. Spero che lui abbia capito, spero che lui possa essere ancora fiero di ciò che sono diventata, anche se non so se ciò che sono possa essere degno di richiamare fierezza. Il passato non potrà mai ridarmelo indietro nessuno, e io devo accettare che sia così. Non devo uccidere la trentenne che c’è in me, le devo dare la libertà di agire. Devo convivere con il mio lato razionale e accudirlo con quella parte di me che non voglio uccidere. Voglio essere ciò che sono sempre stata, ma in un contesto diverso. Voglio stare con Nick e i suoi cinquant’anni, e voglio stare con me e i miei cinquant’anni. Voglio guardarmi con lo sguardo di chi gioca ad American Vero e vedermi crescere, perché – evidentemente – non ho ancora finito. Voglio tutto questo, insieme a loro. Loro che – vedo di fronte a me – stanno correndo verso la panchina in cui sono seduta, loro che mi hanno trovata perché quando ami qualcuno conosci il suo rifugio. Loro che adesso sono di fianco a me.
<<Vai a fare la valigia. Domani siamo tutti liberi da tutto, domani andiamo lì dove abbiamo scattato la nostra foto, e ne scattiamo un’altra. Si va in crociera, Jess. Solo noi, solo noi sei.>> Li guardo e capisco che quello che ho sognato e voluto è realmente ciò di cui mi nutro giornalmente. Li osservo mentre sono così maturi e curati, e decido ciò che avevo già deciso la prima volta in cui li avevo visti: voglio passarci il resto della vita con questi cinque matti. <<No. Ci andiamo tutti, figli compresi. Noi siamo ciò che siamo, e siamo anche genitori, felicemente genitori. Torniamo in crociera, ma con un nuovo bagaglio.>> Dico felice, per la prima volta senza il peso del dovere ma solo del piacere e della felicità. Ci abbracciamo come forse non facevamo da tempo stringendoci forte ricordandoci che la nostra felicità sarà sempre curata dall’altro, che nessuno qui morirà di solitudine, di abbandono. Facciamo strada verso le nostre case preparandoci con fretta alle mille valigie da fare, una fretta che quando sei genitore impari a gestire e che ti permette di poter fare tutto: anche improvvisare una crociera.
Sistemiamo le valigie. I bambini sono felici, Nick è felice, io sono felice. La bomba a orologeria che mi tenevo dentro oggi è esplosa e mi sta portando dove sono sempre voluto tornare. Forse è a questo che servono le esplosioni: a distruggere un sistema per lasciare solo i cocci di ciò che riesce a resistere, e io ho resistito. Tutti noi abbiamo resistito.