Distopia è la rubrica in cui ci immaginiamo i futuri distopici delle Serie Tv, provando a proiettare le storie tanti anni dopo la loro conclusione televisiva.
Oggi tocca a The Good Place Distopia, il mondo di The Good Place venti anni dopo.
Phoenix, 2040.
Il sole dell’Arizona picchia in maniera fastidiosissima. Si appiccica addosso e lascia una patina umidiccia sulla pelle. Dopo tanti anni, Michael non ci ha ancora fatto l’abitudine. È incredibile come si possa soffrire il caldo, specie in certi posti baciati dalla luce fino a tarda sera. Si sente appesantito e affaticato, ragione per cui da un po’ ha smesso di mangiare troppo salato. Un’amica una volta gli disse di stare attento con l’alimentazione, perché la pressione sanguigna è un vero casino e dopo una certa età può essere difficile da tenere sotto controllo. Semplice a dirsi, un po’ meno a farsi. Specie dopo aver scoperto che i frozen yogurt sono una vera fregatura se paragonati a tutto il ben di Dio che si trova a poco prezzo nei fast food.
Qualche problemino di circolazione però alla fine è spuntato. Così all’improvviso, come dal niente. Il medico dice che bisogna camminare tanto e mangiare poco, ma quando può Michael scappa via e ci dà dentro come se avesse vent’anni. La scheda punti del ristorante messicano sotto casa l’ha quasi completata. D’altronde lui è un accumulatore seriale di punti, il vizio non l’ha mai perso. Una volta, finito in ospedale per un taglio sotto il mento, pregò il medico di farsi mettere qualche punto in più. Così, solo per il gusto di collezionarne qualcuno di riserva, non si sa mai.
Ma quanto fa caldo in questa città, pensa Michael mentre supera il cancello e si intrufola nel silenzio di un luogo deserto e assolato. Cerca una cosa in particolare e, mentre tenta di orientarsi tra le incisioni sul marmo, ripercorre a voce alta i suoi vent’anni sulla Terra.
Ha preso l’abitudine di parlare con Jason III, anche se quello non risponde mai se non con un mugugno sommesso ogni volta che inizia a raccontargli la strana storia della sua vita. Jason, il primo cane che aveva preso in casa, è morto di vecchiaia. Jason II, il secondo, è scappato senza fare più ritorno. L’ultimo invece, non si alza dal tappeto se non per stretta necessità. È svogliato e in sovrappeso e Michael deve prodigarsi ogni volta in un’articolatissima opera di persuasione per tirarlo fuori di casa. È rimasto un grande motivatore, il vecchio Michael, anche se il peso degli anni lo ha reso sempre meno reattivo e dinamico.
Il predicatore, lo chiamano gli amici. Una via di mezzo tra un Kant in camicia hawaiana e un guru occidentale con la fissa per Friends.
Aveva creato una sua associazione a Los Angeles: The Good Place, un circolo di scapestrati che si riuniva una volta alla settimana per discutere della vita e delle infinite possibilità che questa offre.
Ma anche per organizzare grandi feste, tornei di bowling, esibizioni con la chitarra e infinite maratone di serie tv. Michael è una specie di Ulisse tennisoniano, il suo motto è sempre stato I’ll drink life to the less. E gli è stato fedele sino in fondo. Ha tratto piacere da ogni singola esperienza della sua vita terrena. Lo hanno eccitato persino i treni in ritardo o le scadenze delle bollette. Ha viaggiato tanto e bevuto nei locali dei peggiori sobborghi della città. Si è ubriacato di vita, forse pure troppo. Per un periodo è finito sul lastrico, ha dovuto chiedere aiuto agli amici per risalire la china.
Era bravo come architetto, ma nessuno lo ha mai preso in considerazione per un lavoro. Aveva delle idee un filino stravaganti per il mercato di Los Angeles. Era diventato un fan dei Jacksonville Jaguars, anche se i suoi amici californiani non hanno mai capito il perché. Si era sposato a Honolulu con la donna che gli aveva insegnato a strimpellare la chitarra. Al “vuoi tu prendere per sposa la qui presente e giurarle amore eterno” si era fatto una risata sguaiata e interminabile, tanto da beccarsi un ceffone in piena faccia dalla futura signora Realman. Poi le aveva detto che l’eternità è noiosa, mentre è la provvisorietà la vera scommessa, l’argine in cui promettersi una fedeltà che resista sul serio.
Ma ha conosciuto anche la disperazione, Michael. Aveva creduto di poter resistere alla miseria delle sofferenze umane all’inizio. Poi il suo migliore amico si è ammalato e lui, che pure sembrava avere una soluzione per tutti i problemi dell’universo, non ha potuto fare altro che vederlo spegnersi ogni giorno di più. La precarietà dell’umana sorte gli è colata addosso come un getto di acqua ghiacciata, lasciandolo senza fiato. Ha ingoiato la vita come fosse benzina, ha rosicchiato delusioni abbattendosi e scoraggiandosi. È diventato triste e cattivo e qualche volta ha persino rimpianto il giorno in cui ha strappato un pass di sola andata per la Terra. Poi però ha ascoltato quella vocina nell’orecchio che ha continuato seccamente a ripetergli “piangi pure finché vuoi, ma dovrai pagarlo comunque quello sturalavandini”. Si è fatto un bel sorriso e ha ricordato a se stesso che l’accordo, dopotutto, era questo.
Phoenix non gli piace per niente, continua a ripeterlo a Jason III. Fa un caldo infernale. Però è curioso che in vent’anni non abbia mai pensato di farci un salto. La partita tra Cardinals e Jaguars era l’occasione giusta per vedere l’Arizona. Ma soprattutto per fare una cosa che aveva in mente da tempo. Continua a girare tra quei pezzi di marmo mentre le gambe gli tremano, il sudore scende giù in maniera troppo copiosa e uno strano peso sul petto gli toglie il fiato. Si chiede come mai una parte del corpo sia come paralizzata ma, mentre cerca una risposta, scorge il nome che cercava:
Eleanor Shellstrop (1982-2020),
passata a miglior vita sotto un pila di carrelli.
Una strana felicità assale Michael, una sensazione che non provava da tempo. Un piacere malinconico, doloroso. Apre la borsa, con la testa che gli pulsa e il braccio formicolante, ed estrae la bottiglia di Margarita che aveva comprato con gli ultimi punti per la sua amica, per la sua più grande amica. La poggia accanto alla lapide, sussurra due parole e casca a terra in un’oscurità fitta e impenetrabile.
L’onda ritorna nell’oceano, Quello che l’oceano fa dopo con l’acqua nessuno lo sa, la gioia è nel mistero.
Un fascio di luce bianca abbaglia Michael. Si sente subito leggero, la testa non gli pulsa più e il braccio ha smesso di formicolargli. Poi pian piano il bagliore svanisce e una grossa scritta verde appare sulla parete: Welcome! Everything is fine.
Una figura compare da dietro una porta:
Michael, ti prego entra.
La voce ha una strana cadenza pakistana, risulta in qualche modo famigliare. Michael capisce tutto prima ancora di voltarsi verso il nuovo architetto del distretto.
Bentrovata, Tahani Al-Jamil. Sono pronto.
Alla fine è tornato dall’altra parte. Alla fine lo ha conquistato con le sue forze: il Paradiso Perduto, l’Aldilà che lo ha generato, il The Good Place.