La Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock, salone di tre giorni a White Lake e Bethel, New York, vi regalerà giorni semplici, rilassati e tranquilli di pace e musica.
Tutti conoscono il festival di Woodstock, anche chi nel 1969 non era neanche nei futuri piani dei propri genitori. Tre giorni con artisti del calibro di Janis Joplin, gli Who, Santana e Jimi Hendrix, all’insegna della musica ma soprattutto dei valori portati avanti dalla sottocultura hippy. Un festival che è più di un festival: è parte dell’immaginario collettivo. Non è strano dunque che si tentasse prima o poi di ripeterlo, creando qualcosa che entrasse nuovamente nella storia e permettesse alla nuova generazione di conoscere davvero l’evento del ’69. E quale occasione migliore del suo trentennale. È in questo modo che prende vita e assume forma l’idea di Woodstock ’99: una nuova tre giorni con più di 40 band e circa 250.000 spettatori a Rome, nello Stato di New York. Ma quello che era destinato a essere l’evento del decennio si è trasformato in un incredibile disastro. Pace e amore sono stati sostituiti da violenza e incompetenza, pienamente raccontati nella docuserie Trainwreck: Woodstock ’99.
Trainwreck: Woodstock ’99, documentario in tre puntate, è disponibile su Netflix a partire da giovedì 3 agosto. Ogni puntata, di durata che va tra i 45 e i 50 minuti, ci porta per mano in una giornata di festival tra immagini di repertorio e interviste della contemporaneità. La narrazione comincia e finisce con le immagini risalenti a lunedì 26 luglio 1999, il giorno dopo la fine del festival, facendoci entrare nella storia dalla porta di uscita e permettendoci di capire l’epilogo fin dal principio. Ciò che non sappiamo ancora, e che scopriamo nel corso della serie, è come ci siamo arrivati.
Il tempo è scandito da un orologio che ci avvicina sempre più alla realizzazione di un disastro, un furbo stratagemma per aumentare la suspense intorno a ciò che sta per accadere. Ma tra un’immagine di repertorio e l’altra, il festival è raccontato nella sua totalità dagli organizzatori che lo hanno reso possibile, da persone che hanno lavorato nello staff e da uomini e donne che nel 1999 erano adolescenti o giovanissimi partecipanti a quello che tuttora definiscono all’unisono l’evento più incredibile della loro vita. Un evento al quale, nonostante tutto, parteciperebbero ancora.
Trainwreck: Woodstock ’99 racconta un sogno trasformato in tragedia
L’idea di ricreare Woodstock ebbe origine da Michael Lang, uno degli organizzatori dell’evento originario, dopo un tentativo rivelatosi un flop nel 1994. Quello del 1999 doveva essere un evento diverso, immenso, l’evento musicale più costoso di sempre. Ma anche in questo secondo tentativo niente andò secondo i piani. Come location fu scelta una base militare dismessa, che permetteva di controllare l’ingresso delle persone con facilità ma aveva poco a che fare con le immense distese verdi dell’evento originale.
I buoni presupposti in realtà scarseggiavano fin dall’inizio. Durante il battesimo la bottiglia usata non si rompeva e questo, lo sanno bene i naviganti, non è affatto un buon segno. Il cantante d’apertura del festival, James Brown, quasi non salì sul palco per questioni economiche irrisolte. Insomma, si era partiti col piede sbagliato, e non si dovette attendere il secondo giorno di festival per cominciare a vedere le prime cose andare storte. Durante la prima giornata, mentre i monaci tibetani benedicevano il festival, cominciavano già i primi problemi. Il senso di libertà dei giovani presenti e la loro voglia di lasciare le responsabilità fuori dai cancelli del festival si tradussero presto in mancanze di rispetto e veri e propri abusi. Sheryl Crow subì grida moleste e catcalling mentre si esibiva sul palco e le donne presenti venivano palpate ripetutamente. Quello descritto da chi c’era è un ambiente in cui l’ego maschile la faceva da padrone: i ragazzi si sentivano in una posizione di potere e credevano di poter fare qualsiasi cosa gli passasse per la testa.
Festa o distruzione?
Il tutto degenerò però nei giorni a seguire. Quelle mostrate in Trainwreck: Woodstock ’99 sono scene di degrado: i bagni erano pochi e sporchi, i secchi della spazzatura quasi inesistenti, le fontanelle gratuite prima difficili da raggiungere a causa della fila, poi addirittura contaminate, l’ombra inesistente. Cibo e bevande dovevano essere comprati rigorosamente all’interno del festival a prezzi esorbitanti e sempre in crescita. La rottura di alcune tubature creò addirittura un vero e proprio fiume di acqua e feci all’interno dello spazio del festival. E in questo contesto c’erano circa 250.000 giovani pronti a far festa ma anche a ribellarsi a un trattamento che era tutto fuorché consono. I partecipanti cominciarono a lamentarsi, a sentirsi usati e trattati come bestie. E se si trattano le persone come bestie, prima o poi possono diventarlo davvero.
La folla era enorme e sempre più difficile da gestire. Ogni esibizione musicale, soprattutto quelle più hardcore, la caricava di un’energia che avrebbe poi fatto esplodere nel peggior modo possibile. Un primo momento di rottura si registrò durante il secondo giorno di festival, quando alcuni spettatori si accanirono contro la torre dove stavano lavorando i tecnici del suono. Al rave successivo entrò addirittura un furgone con all’interno un ragazzo e un’adolescente svenuta ritrovata seminuda. Insomma, ci fu uno stupro nel bel mezzo di un festival che avrebbe dovuto promuovere pace e amore. Ma non fu il solo: le denunce per stupro durante l’evento furono ben quattro.
Ma fu la domenica a decretare l’inizio della fine. Durante l’esibizione di chiusura del festival furono distribuite agli oltre 100.000 spettatori rimasti delle candele. L’obiettivo era vivere un momento di commemorazione per il massacro della Columbine avvenuto poco tempo prima, manifestando un chiaro posizionamento contro l’uso diffuso delle armi negli Stati Uniti. Il risultato, derivato anche dall’insoddisfazione di una folla che si aspettava una inesistente sorpresa sul finale, fu che a diventare un’arma furono quelle stesse candele di pace. La situazione degenerò in brevissimo tempo: ci furono parecchi roghi, una torre altoparlante fu abbattuta, rimorchi dati alle fiamme, i bancomat furono assaltati e vennero provocate diverse esplosioni. Il tutto, mentre buona parte dello staff era barricata negli uffici. Fu così che si concluse lo show.
La potenza della folla
Ciò che le immagini e le testimonianze di Trainwreck: Woodstock ’99 dimostrano molto bene è quanto possa essere potente una folla. 250.000 giovani cantavano all’unisono, si muovevano all’unisono, erano un vero e proprio mare di persone davanti a un palco. L’onda che ballava a ritmo di musica anni Novanta diventò però tzunami e inondò tutto, distruggendo ciò che si trovava davanti e trasformando i singoli in un complesso in cui tutto è permesso. Non si tratta più di persone isolate quando la legge della folla ha il sopravvento: vedere gli altri fare cose forti, incredibili, può trasformare anche le persone più tranquille. Se lo fanno gli altri, perché non posso farlo io? Ed è così che Rome burns.
Ma la folla inferocita non è altro che il risultato di un sistema completamente sbagliato. È una folla maltrattata il cui bisogno di libertà è stato usato dagli organizzatori come facile fonte di guadagno. Un guadagno fatto risparmiando su ciò che era davvero necessario: strutture, sicurezza, controlli. Insomma, addio sottocultura hippy e benvenuto al capitalismo più puro. Quando le cose stanno così prima o poi scatta la rivoluzione, e i ragazzi presenti nelle immagini di repertorio lo urlano chiaro e tondo: non si può fermare una rivolta negli anni Novanta.
Quante versioni ci sono di una storia?
Quella che Trainwreck: Woodstock ’99 porta sui nostri schermi è la storia di un fallimento sotto innumerevoli punti di vista, di errori che si sommano ad altri errori, del disprezzo verso l’altro e della voglia di profitto che supera quella di fare le cose per bene. È un racconto complesso che come tale può essere visto e vissuto da diverse angolazioni, e se c’è un merito che Trainwreck: Woodstock ’99 ha è proprio quello di averne mostrate il più possibile.
Ci sono le voci di Michael Lang e John Scher, che hanno cercato fino all’ultimo di minimizzare l’accaduto e che a più di vent’anni di distanza ancora non si assumono le loro colpe. Ci sono le storie di persone che oggi sono adulte ma nel 1999 erano giovani contemporaneamente spaventati e affascinati dalla realtà che si stava manifestando davanti ai loro occhi. Ci sono anche i racconti di inservienti, tecnici, addetti alla sicurezza, assistenti accomunati da una conoscenza profonda di ciò che è accaduto durante l’evento ma anche di tutto il processo di costruzione dello stesso. Ci sono addirittura i commenti di alcuni artisti che erano sul palco durante quegli assurdi tre giorni. E poi ci siamo noi, che avendo davanti tutti questi punti di vista possiamo formare il nostro. Le opinioni attorno a Woodstock ’99 sono tante, e forse nessuna di queste è totalmente giusta né totalmente sbagliata. Ma per adesso tra tutte queste opinioni spunta un’unica certezza: non ci sarà mai più un’altra Woodstock.